Aleksandr Sokurov – Francofonia

L’arte, la guerra e l’Europa

recensione di Giaime Alonge

dal numero di gennaio 2016

Aleksandr Sokurov
FRANCOFONIA
con Vincent Nemeth, Louis-Do De Lencquesaing, Johanna Korthals Altes, Benjamin Utzerath
Francia, Germania, Olanda 2015

Una donna in cappello frigio corre per le sale del Louvre, forse in ricordo della corsa a perdifiato per le gallerie del grande museo in cui si lanciavano i tre protagonisti di Bande à part (1964) di Godard. Un soldato della Wehrmacht insegue una ragazza francese in basco blu, la quale si lascia prendere e baciare, mentre accanto a loro scorre il traffico della Parigi di oggi. Hitler, ripreso dagli operatori dei cinegiornali, si aggira per le strade della capitale francese appena conquistata, ma parla con una voce doppiata: frasi brevi e sciocche, che fanno pensare al Chaplin de Il grande dittatore (1940). Francofonia è un film costruito attraverso l’uso di materiali visivi e sonori disomogenei. Passato e presente, fiction e non fiction, scene girate da Sokurov e immagini di repertorio, si mescolano, a costruire un testo composito e di forte fascino.

Le linee narrative dell’opera

I livelli sono sostanzialmente tre. C’è una vicenda che fa da cornice, in cui il regista stesso (che nella versione italiana è doppiato da Umberto Orsini) parla via Skype con un amico imbarcato su una nave portacontainer, in cui sono state caricate delle opere d’arte, e che rappresenta – con un simbolismo un po’ facile – la cultura occidentale alla deriva tra i marosi dello scontro di civiltà del XXI secolo (nel finale, la nave, intravista sullo schermo del computer di Sokurov, affonda rovinosamente). C’è la storia dell’ambigua collaborazione tra il direttore del Louvre Jacques Jaujard e il conte von Wolff-Metternich, responsabile della cura del patrimonio artistico francese per conto delle autorità di occupazione tedesche. Sono entrambi uomini di cultura ed entrambi dei patrioti, ma la loro fedeltà alle rispettive nazioni presenta delle ombre. Jaujard è un funzionario modello, uno dei pochi alti funzionari dell’amministrazione francese che, nel giugno del 1940, anziché fuggire verso il sud insieme al governo, sono rimasti a Parigi, al loro posto. In tal modo, però, Jaujard si ritrova a collaborare con l’occupante. Von Wolff-Metternich è un aristocratico tedesco, un valoroso combattente della Grande guerra, eppure, la sua vera patria è l’arte. Tra il Reich millenario e i capolavori del Louvre, sceglie i secondi, difendendoli dalle mire di Goering e degli altri capi nazisti, che stanno predando le collezioni d’arte di tutta Europa. Il terzo livello testuale è rappresentato da una specie di documentario in soggettiva girato dentro il Louvre, che riprende il modello di Arca russa (2002), realizzato – con un unico piano-sequenza – nelle sale dell’Ermitage. Se nel film del 2002 il narratore incontrava una lunga teoria di personaggi della storia russa, qui interagisce con due solo figure, Marianna, che non fa altro che ripetere “liberté, égalité, fraternité”, e Napoleone, ideatore del museo nazionale del Louvre, riempito di opere d’arte razziate durante le sue campagne. “Perché avrei fatto la guerra? Per l’arte!”, esclama l’imperatore di fronte a una grande tela di David che raffigura la sua incoronazione.

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Francofonia, arte e politica tra passato e presente

Questo è il cuore del film, il complesso intreccio tra arte e politica. La politica delle potenze del vecchio continente, con al centro la rivalità franco-tedesca, e, in lontananza, la Russia, paese sempre incerto tra l’Europa e l’Asia (ma Sokurov non ha dubbi: “Che cosa saremmo senza l’Europa?”, dice nei primi minuti del film). Francofonia, che si apre sulle fotografie di Tolstoj e Čechov, è anche una riflessione sui destini paralleli di Parigi e di Leningrado/San Pietroburgo, e dei rispettivi musei, il Louvre e l’Ermitage, entrambi segnati dalla seconda guerra mondiale (una sequenza del film è dedicata all’assedio di Leningrado e al ruolo che vi svolse l’Ermitage). Da una parte, Francofonia si presenta come un atto d’amore verso la Francia e la sua cultura, intese quale perno della civiltà europea.

Francofonia

Se il film si intitola Francofonia è proprio perché rimanda al tempo in cui, prima della battaglia di Waterloo, la lingua degli intellettuali e dei diplomatici era il francese; e anche dopo, il francese rimane la lingua della nobiltà russa, persino in privato, basti ricordare Anna Karenina. Se il film inizia proprio con un ritratto di Tolstoj, forse è anche perché lo scrittore veniva da quel mondo francofono. Nella scena del primo incontro tra Jaujard e von Wolff-Metternich, il secondo, che sfoggia un ottimo francese, chiede all’altro se parli tedesco. Jaujard risponde di no. “Sono molto francese”, si giustifica. Come gli anglofoni di oggi, Jaujard non ha bisogno di parlare le lingue straniere, perché sono gli altri che devono esprimersi nel suo idioma, persino i tedeschi padroni dell’Europa. Ma allo stesso tempo, il film finisce con l’offrire una rappresentazione un po’ macchiettistica della storia francese, o quanto meno di uno dei suoi passaggi chiave, ovvero la Rivoluzione e il primo impero. Marianna – lo abbiamo detto – ripete come un disco rotto le tre parole d’ordine della Rivoluzione, tanto che, come ha notato Cristina Battocletti sul domenicale del “Sole 24ore” del 13 dicembre 2015, alla fine persino il narratore le dice di stare zitta. Napoleone, invece, viene rappresentato come un tiranno megalomane che non fa che ribadire, indicando i pezzi che compongono le collezioni, che è tutto merito suo se quei tesori sono stati raccolti al Louvre. Sokurov accosta Napoleone a Hitler, due dittatori appassionati d’arte. È una lettura diffusa, ma semplicistica, del personaggio di Napoleone.

Certo, l’impero costituisce un’involuzione della rivoluzione nella forma della dittatura militare, eppure ne conserva il nocciolo ideologico. Nelle loro campagne nelle diverse regioni dell’Europa, le armate napoleoniche portano la cultura illuminista, spazzando via il feudalesimo e il clericalismo dell’antico regime. Se per Sokurov Napoleone è una figura negativa, e la stessa Marianna, simbolo della democrazia francese ed europea, non è altro che una creatura fantasmatica persa nella ripetizione infinita di una formula vuota, allora l’alternativa qual è? La risposta non è esplicitata, ma si potrebbe ipotizzare che consista nel dispotismo illuminato, quello di Pietro il Grande (che certo non fu sovrano più tenero di Napoleone), o magari di Putin.

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La chiave interpretativa è il rapporto con l’Islam

Accanto alla riflessione sul passato, il film ha anche una dimensione contemporanea. Il nesso arte-politica è certo investigato in rapporto alle origini del Louvre, che senza le ruberie della Grande Armée sarebbe stato meno ricco. Ma è anche inquadrato dal punto di vista del presente. Il Louvre, come il British Museum, o come ogni altro grande museo occidentale, è pieno di pezzi sottratti ai paesi d’origine, comprati o trafugati in epoca coloniale. È sempre stata un’ombra su queste grandi istituzioni, il segno di un’antica arroganza imperiale. Eppure, oggi che gli uomini dell’Isis distruggono capolavori millenari, non possiamo che essere felici che i nostri musei siano pieni di reperti archeologici mediorientali. Guardando Francofonia, è il pensiero che inevitabilmente coglie lo spettatore quando, sullo schermo, appaiono i meravigliosi tori alati assiri, oppure una statua di 9.000 anni fa ritrovata in Giordania. Sokurov non calca la mano sul tema dello scontro con l’islam, ma il problema è lì, e all’inizio del film lo evoca in modo esplicito. Parlando dell’arte del ritratto, un’arte che rappresenta uno degli assi portanti di tutta la storia della pittura europea, la voce narrante osserva che altri, ad esempio i musulmani, non la praticano. Fuori campo, ci dice Sokurov, c’è un alterità radicale, persino più minacciosa della barbarie nazista, che sterminava interi popoli ma salvaguardava le opere d’arte. È una furia cieca e selvaggia, come le onde che si abbattono senza pietà sulla nave intravista sullo schermo del computer nello studio di Sokurov. E allora, l’opera più significativa del Louvre, più interessante persino della Gioconda o della Nike di Samotracia, per il regista russo diventa La zattera della Medusa di Géricault, su cui l’occhio della sua videocamera indugia a lungo, a sottolineare il destino incerto di un continente carico di storia e di cultura, ma incapace di arrestare il processo della propria decadenza economica e politica.

giaime.alonge@unito.it

G Alonge insegna storia del cinema all’Università di Torino