Inside Out – La spettacolare rinascita del cinema di animazione

Riley, Paperino e la cloche delle emozioni

di Giaime Alonge

dal numero di novembre 2015

Il critico del “New Yorker” Anthony Lane nella recensione di Inside Out, l’ultimo film della Disney-Pixar, diretto da Pete Docter e Ronnie del ­Carmen, pur dandone una valutazione positiva, sostiene che il film sarebbe troppo complesso per gli “spettatori più giovani, che in fondo sono il suo pubblico”. Affermazioni di questo genere, a proposito del cinema di animazione contemporaneo, sono piuttosto frequenti: critici e semplici spettatori mettono sovente in evidenza il fatto che questa o quella scena sarebbero incomprensibili per i bambini. Da un certo punto di vista, si tratta di argomentazioni inoppugnabili, e quello di Inside Out si presenta come un caso assolutamente paradigmatico.

La vicenda si svolge tutta nella testa di Riley, una ragazzina di dodici anni, dove cinque buffi personaggi, che rappresentano altrettante emozioni (Gioia, Tristezza, Paura, Rabbia, Disgusto), guidano i pensieri e le azioni della bambina, in un momento per lei particolarmente difficile (la famiglia si è appena trasferita dal natio e amatissimo Minnesota alla sconosciuta San Francisco). Nel corso della vicenda, Gioia e Tristezza vengono accidentalmente espulse dalla sala controllo, e devono affrontare un difficile viaggio nella mente di Riley per tornare ai comandi. Tra i momenti più pericolosi dell’avventura c’è l’attraversamento della zona del pensiero astratto, dove i personaggi si scompongono come figure cubiste, fino a diventare pure macchie di colore su fondo bianco. È ovvio che una gag di questo genere non può essere apprezzata appieno da un bambino. Allo stesso modo, la battuta “È la città delle nuvole, Jacke” la capisce solo chi ha visto Chinatown (1974), e ricorda “Forget it, Jacke. It’s Chinatown” che chiude il film di Polanski. E tuttavia un bambino di nove anni (mio figlio), che non conosce la pittura di Mondrian, e non ha visto Chinatown, alla fine della proiezione, appena si sono accese le luci in sala, mi ha chiesto di tornare a rivederlo.

Quello che Anthony Lane non coglie è che i film di animazione contemporanei sono spesso opere assai ricche, sul piano visivo come su quello drammaturgico, che sanno parlare contemporaneamente a più pubblici. Negli ultimi vent’anni, a partire da Toy Story (1995), il primo lungometraggio Pixar, diretto da John Lasseter, il cinema di animazione ha conosciuto una spettacolare rinascita. L’arrivo dell’animazione digitale non solo ha aperto un nuovo campo, che è tuttora rigoglioso, ma ha anche rilanciato l’animazione tradizionale (con disegni o pupazzi animati), la cui presenza in sala è cresciuta in modo esponenziale. Prima di Toy Story, di lungometraggi animati se ne producevano pochi. Sostanzialmente, c’era un film Disney a Natale, e neppure tutti gli anni, più qualche imitazione più o meno riuscita dello stile Disney, e a volte film per un pubblico misto di grandi e piccini, film che magari potevano essere interessanti sul piano estetico e/o ottenere un buon successo al botteghino (si pensi a titoli – tra loro diversissimi – come Yellow Submarine, 1968; Chi ha incastrato Roger Rabbit, 1988; Nightmare Before Christmas, 1993), ma che rimanevano dei casi unici, incapaci di aprire in modo stabile un nuovo territorio.

Roger-Rabbit-Cover

Una scena del film “Chi ha incastrato Roger Rabbit?”

L’animazione digitale, invece, è riuscita a dare vita a una consistente ondata di lungometraggi animati (realizzati, lo ripeto, anche con tecniche tradizionali), che rappresentano senza dubbio uno dei fenomeni più significativi della produzione cinematografica contemporanea. E per far questo, l’animazione ha dovuto necessariamente ritornare a parlare anche agli adulti. Infatti, l’idea che i film di animazione siano uno spettacolo strettamente infantile è un effetto della fine della grande stagione del cartoon hollywoodiano del periodo classico (grosso modo, quella parte della storia del cinema che va dalla Grande guerra a tutti gli anni cinquanta). Le ­looney tunes della Warner, o la serie di Betty Boop, presentavano storie e gag che solo il pubblico adulto poteva apprezzare appieno, ma che piacevano anche ai bambini. Più in generale, era il cinema hollywoodiano classico nel suo complesso che tendeva a rivolgersi a un pubblico indifferenziato sul piano generazionale. Al cinema ci andava tutta la famiglia, dai nonni ai nipoti, e tutti dovevano trovare nel film qualcosa di interessante.

Se, a un certo punto, l’animazione è diventata quasi unicamente una forma di intrattenimento infantile, in parte è certo dovuto alla politica della Disney, la più importante casa di cinema d’animazione, che sin dal suo primo lungometraggio, Biancaneve e i sette nani (1938), ha puntato in modo prioritario sui più piccoli. Ma l’altro fattore determinante è stata la scomparsa del cortometraggio animato dalle sale, e il suo passaggio in televisione, dove è stato collocato nella fascia di programmazione pomeridiana, rivolta espressamente ai bambini. Tant’è che prima dell’arrivo della tv, anche la Disney faceva film d’animazione per adulti, basti vedere i suoi numerosi corti di propaganda bellica, ma c’è persino un lungometraggio che non può che rivolgersi agli adulti (Victory Through Air Power, 1943) dove Paperino spiega l’importanza di pagare le tasse per sconfiggere i nazisti.

Ed è proprio a uno di questi film di propaganda che è ispirato il plot di Inside Out. Si tratta di Reason and Emotion (1943), uno dei cartoons didattici realizzati dalla Disney per illustrare la natura ideologica della guerra e i problemi psicologici che essa poneva agli americani. In questo affascinante cortometraggio (che si può vedere qui sotto), esattamente come in Inside Out, lo spettatore ha il privilegio di dare un’occhiata dentro la testa della gente. In Reason and Emotion, a contendersi il controllo della mente umana sono i due personaggi eponimi: Ragione (un distinto signore con gli occhiali nel caso degli uomini, e una specie di zitella inglese in quello delle donne) e Emozione (una coppia di trogloditi preda degli istinti più bassi). La morale del film è che “uncontrolled emotion” può causare problemi, soprattutto in tempo di guerra, quando circolano voci allarmistiche di cui bisogna diffidare. Se la mente dei tedeschi è controllata da Emozione (un bruto con l’elmetto chiodato che ha chiuso Ragione in un campo di concentramento), i cittadini delle democrazie anglosassoni hanno alla guida Ragione, con accanto Emozione in funzione ancillare. Il film si chiude con i due personaggi vestiti da aviatori (Ragione stringe la cloche), dentro la testa di un pilota americano ai comandi di un bombardiere.

Inside Out recupera l’idea di fondo del cartoon del 1943 (ma già lo faceva Woody Allen nel 1972, in uno degli episodi di Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere, il divertentissimo Cosa accade durante l’eiaculazione), e la espande al livello di lungometraggio. Il salto è quantitativo: novanta minuti anziché sette, cinque personaggi al posto di due. Ma è soprattutto qualitativo. In Reason and Emotion, il rapporto tra i due protagonisti, almeno in apparenza, è costruito in modo manicheo: Emozione, da sola, provoca guai a non finire, e dunque deve essere diretta da Ragione. Dico “in apparenza” perché, a guardar bene, il film ci dice anche che Ragione è di una noia mortale, oltre a essere inglese, cosa che nei film hollywoodiani dell’epoca classica destava spesso un certo sospetto. Nella scena in cui Reason ed Emotion si accapigliano per il controllo delle decisioni della donna, impegnata a ordinare in una tavola calda, Ragione, con un accento vagamente british, propone un modesto spuntino a base di tè e pane tostato, mentre Emozione, che parla in american english, vuole del junk food statunitense: “I want a club sandwich and a giant double milkshake”.

Reason and Emotion è un film del periodo classico, e pertanto confina prudentemente l’ambiguità nell’ombra del sottotesto, là dove Inside Out può permettersi di portare alla luce le contraddizioni. Qui non c’è una contrapposizione polare tra sentimenti positivi e sentimenti distruttivi. O meglio, all’inizio Gioia è alla guida di Riley (sul modello dell’epilogo di Reason and Emotion), e gli altri quattro si limitano ad assisterla, con Tristezza che sembra essere inutile, o addirittura nociva. Nel corso della vicenda, però, si scopre che anche Tristezza serve, perché crescere, ci dice il film, significa acquisire la capacità di ­gestire la sofferenza.

giaime.alonge@unito.it

G Alonge insegna storia del cinema all’Università di Torino