Una magnifica fesseria: la Giovanna d’Arco di Giuseppe Verdi

La Prima alla Scala di Milano

di Vittorio Coletti 

Pubblichiamo un commento di Vittorio Coletti sulla scelta controversa di aprire la stagione operistica  della Scala con un’opera minore di Giuseppe Verdi.

La Scala ha meritoriamente contribuito all’esplorazione di opere se non rare, meno scontate e di repertorio, inaugurando la sua stagione con la Giovanna d’Arco di Verdi, una delle opere più infelici del Maestro e per questo (giustamente) non troppo spesso rappresentata. La Scala è riuscita in un mezzo miracolo: ha fatto un bello spettacolo di un’opera semifallita. C’è riuscita grazie, nell’ordine: alla bravura del direttore Riccardo Chally e della magnifica orchestra, che hanno cavato dalla partitura tutto il meglio; alla grandiosa precisione scenica e vocale del coro, e alla straordinaria versatilità del soprano Anna Netrebko.

Intendiamoci: neppure questi grandi ed eccellenti protagonisti sono bastati a nascondere la fiacchezza complessiva dell’ispirazione di Verdi, che agguanta una bella idea ma non la sostiene, la smarrisce o la disperde, né hanno potuto ovviare ai difetti del libretto (di Temistocle Solera), il più sconclusionato che io conosca, scritto in una specie di non-italiano, in cui ai cultismi consueti del linguaggio melodrammatico aggiunge una serie di approssimazioni lessicali davvero strabiliante, che ne fanno una lingua finta: “ella si cesse ai demoni”, “languido è il fral, ma l’anima/ maggiore è d’ogni duol”, “appurata dai dolori” e la rima “fusse: addusse” o la ridondante “vendetta ultrice”. Ma la cosa più sconcertante è stata, ancora una volta, la regia. I due registi belgi (Mosche Leiser e Patrice Caurier) hanno immaginato che la storia di Giovanna sia il delirio di una malata di mente dell’ottocento, curata amorevolmente dal padre (che invece, nel libretto, di derivazione schilleriana, è il più pestifero genitore di tutta l’opera lirica, superstizioso, ignorante e presuntuoso). Ora la trovata è stata scenicamente efficace, perché la realtà medievale (chiese, roghi, cavalli, madonne, guerrieri e folle superstiziose) irrompeva in una grigia stanza borghese con belli effetti di colori contrastanti, ma, va subito detto, e senza giri di parole, specie dopo gli stucchevoli osanna di troppi commentatori, che essa non ha alcun nesso col libretto se non quello di spiegare il delirio verbale del suo autore.

È una magnifica fesseria, che lo spettatore ha finito per ignorare, ma che, se ci si pensa, dà persino ai nervi per la presunzione manipolatoria che le sta alle spalle, incurante del testo e della sua vicenda. Chally ha letto la Giovanna d’Arco, e la conosce bene; i registi devono averci dato un’occhiata di sfuggita e poi si sono dedicati alle loro invenzioni strampalate, anche se realizzate in maniera professionalmente impeccabile. E’ forse tenero, persino simpatico, che la descrizione di Giovanna in campo che il padre fa agli spettatori nel libretto sia diventata sulla scena scaligera il racconto di un trepido genitore alla figlia pazza costretta a letto; ma è risultato comico, come quando si cerca di calmare il classico fissato di essere Napoleone, rassicurandolo. E comici sono così diventati vari personaggi e situazioni che non lo sono di per sé per niente: non penso tanto ai grotteschi diavoli disneyani che ballano, quanto al re Carlo, travestito da burattino d’oro e messo su una specie di cavallo a dondolo dorato, con una scelta che fa di un re debole (ma per questo, una volta tanto, abbastanza vero) un re finto, da operetta dei pupi. Insomma, lo straniamento è eccessivo e del tutto gratuito e l’opera lo ha sopportato solo perché (è la grande forza della lirica) ha potuto permettersi di ignorarne il significato e trattenerne solo l’efficacia visiva.

vittorio.coletti@lettere.unige.it

V Coletti insegna storia della lingua italiana all’Università di Genova