Record Store Day e Vinile di Mike Evans

Una ricorrenza e un libro

di Guido Michelone

Record Store Day in tutto il mondo il 15 aprile da ormai nove anni, e Vinile di Mike Evans da alcune settimane nelle librerie italiane: due eventi – una ricorrenza e un libro – su un argomento tornato d’attualità nella vita e nella cultura del XXI secolo. E proprio nel giorno in cui si celebra la difesa di quei negozi che da sempre risultano centri aggregativi di nuove culture musicali, si può partire con il volume del celebre giornalista inglese per ricordare l’importanza anche storica del vinile, lungo il secondo Novecento, in seno alla nostra civiltà che non è solo delle immagini, perché composta soprattutto di suoni, talvolta ubiquamente onnipresenti.

Come afferma il noto musicologo Franco Fabbri: “Vinile è una categoria folk, nel senso che è un concetto introdotto da comunità di non specialisti. È anche un concetto postumo, usato per di più scorrettamente per descrivere uno solo (l’album, o lp, o 33 giri) fra i diversi tipi di supporti analogici basati su quel materiale. Nessuno ha mai chiamato un album ‘vinile’ prima degli anni Ottanta, quando fu introdotto il cd. Quindi, i fan dei Beatles o dei Pink Floyd parlavano dell’’ultimo album’ o ‘ultimo lp’, o ‘ultimo 33 giri’ dei Beatles o dei Pink Floyd: non avrebbero mai detto ‘ultimo vinile’. Semmai, in Italia, si diceva ‘padelloni’ (nel gergo giovanile e dei dj radiofonici). Certo, tutti i ragazzi oggi chiamano gli album analogici ‘vinili’, e pensano che il formato universale sia il cd. Quando ne viene uno a un esame a parlarmi dei cd di Elvis Presley di solito gli dico di tornare al prossimo appello”.

Forse per compiacere i ragazzi di oggi, Evans usa il termine vinile per raccontare una vicenda affascinante che prende concretamente il via quando una materia plastica (PVC, cloruro di polivinile), in ambito discografico, sostituisce la tradizionale gommalacca per grammofono, rivoluzionando il mondo della comunicazione, della tecnologia e dell’estetica musicale. Divenuto ben presto sinonimo di disco long playing a 33 giri, il vinile – introdotto nel 1948 dalla Columbia Records – diventa ben presto un oggetto cult, uno status symbol, un prodotto fisico dell’immaginario collettivo. Dagli anni Ottanta, in seguito all’innovazione digitale del compact disc, il vinile riesce ad autorigenerarsi nel microcosmo della cultura alternativa: pur transitando dal mercato di massa a quello di nicchia, il vinile torna persino in auge all’inizio di questo nostro decennio, quando alcune rock band decidono di proporre la loro musica su tre differenti supporti fonografici: il download (il futuro e il presente), il CD (il passato prossimo) e appunto il caro amato “padellone” (la nostalgia e il vintage, ma anche la classicità e la passione).

Oggi dunque l’amore, la virtù e la conoscenza dell’LP interessano tanto le vecchie generazioni rimaste fedeli alla cultura vinilica quanto i nuovi giovani che, senza mai veramente conoscere la fase intermedia del digitale su dischetto, approdano al 33 giri tra curiosità, fantasia, entusiasmo. I ragazzi di oggi, ascoltando per la prima volta ad esempio Sgt. Pepper dei Beatles o The Wall dei Pink Floyd mediante l’originario supporto vinilico, scoprono di quest’ultimo le qualità artistiche – interiorità, calore, polivalenza – del suono registrato, congiunte a una risonanza mediatica dal forte imprinting espressivo.
Addirittura, il vinile, inventando il concept album – già negli anni cinquanta con il jazz, benché assurga a fenomeno planetario grazie al rock nei due decenni successivi – crea un nuovo linguaggio estetico-comunicativo, impensabile con altri strumenti. Non è solo un promotore di nuovi concetti musicali racchiusi in un format qualificante, che fa di necessità virtù, sfruttando le limitazioni tecniche del medium stesso: il vinile, intorno alla musica, inventa un macrocosmo plurisensoriale o, in altri termini, offre anche un percorso di interdisciplinarietà in grado di coinvolgere ulteriori linguaggi relativi sia all’immagine visiva sia alla parola scritta.

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È in particolare il contenitore del vinile, ovvero la copertina, a essere intrinsecamente connesso al proprio contenuto (la musica): e il tipico quadrato a busta o ad albo diventa un’immensa enciclopedia in cui si esercitano la critica musicale (le cosiddette liner notes) e soprattutto le arti figurative dalla pittura alla fotografia, dal fumetto alla grafica. Mentre i solchi neri dal giradischi riproducono con sempre maggior fedeltà i suoni di un’orchestra, di un cantante, di una big band o di un gruppo pop, le copertine del vinile lasciate in bella vista o persino appese ai muri come poster e quadri, fiabescamente arrivano a comporre un’ideale galleria di ritratti, paesaggi, nature morte che non solo rappresentano, ma soprattutto incarnano via via le utopie vibranti dei favolosi Sixties, le metafore ossessive degli anni di piombo o le odierne inquietudini di un incertissimo avvenire.

Anche il contenuto (sonoro) del vinile diventa segno musicale fondativo, poiché l’album in primis – assai più del singolo a 45 giri – si pone quale testo significante, unico ad esempio, nel caso del jazz e del rock, insostituibile per studiare la musica stessa, che, a sua volta, sfrutta efficacemente le potenzialità del mezzo dai modi e tempi di lavoro negli studios agli spazi di registrazione fino ai modi di postproduzione. Dopo il vinile, insomma, la musica non sarà più la stessa.

guido.michelone@tin.it

G Michelone insegna storia della musica afroamericana all’Università Cattolica di Milano e Storia della musica jazz e delle musiche improvvisate audiotattili al Conservatorio Vivaldi di Alessandria