Anna Maria Carpi – L’animato porto

La sospensione della notte

recensione di Enzo Rega

dal numero di maggio 2016

Anna Maria Carpi
L’ANIMATO PORTO
pp. 74, € 12
La Vita Felice, Milano 2015

Carpi“Da dove viene che non la vedo, questa speranza / io non so in che cosa, / questa gioia improvvisa / fuori del cuore, / aliena, / e canta / la sua infinita ragione d’esistere?”. Questi versi, tolti dalla precedente raccolta di Anna Maria Carpi, Quando avrò tempo, e riproposti ora nell’ultima sezione che da quella raccolta riprende una scelta, possono introdurci nel nuovo libro, nel quale lo sguardo va alla ricerca di una luce, già quasi all’inizio, in testi dedicati alla propria formazione (il titolo della prima sezione è appunto L’educazione, aperta da un esergo goethiano che invita alla conquista quotidiana): “Una guida una luce volevamo. / Così giovani e pieni / di qualità, vedrete! / dicevano i sangiorgi con il drago (…)”. Ma il tempo, quello che dà appunto il titolo alla raccolta passata, incombe su tutto. E in conclusione dello stesso testo leggiamo: “Quando tempo è passato, è un altro mondo. / (…) perché niente è più vero e manca il tempo / e va ognuno alla cieca e sconsolato”. Rimane dunque un’ambivalenza di fondo tra la necessità del rasserenamento e il dato incontrovertibile della nostra precarietà e provvisorietà.

Nel tempo che va, come in altre raccolte, la poesia cerca di fissare momenti della quotidianità, in questa prima sezione quelli di una famiglia assente, le cui latitanza attraversa anche pagine di altre raccolte. Non era famiglia, e non era casa. Eppure si sente il bisogno di riesumarne il ricordo e allinearlo sul tavolo della eterna contemporaneità che è la poesia. Così è per il presente, che si squaderna nella sezione successiva, Quello che vedo: quasi come una (ma più distesa) école du regard, o un’antropologia della quotidianità alla Marc Augé, il quale scende nel metrò e si ferma nei bistrot parigini. Così, la Carpi stenografa il mondo circostante, questo animato porto (“Gente che va e viene / sembra festa, / e a me a quest’ora / torna la speranza”) nel quale viviamo. Leggiamo dunque: “Mattino fuori in tram, / ognuno ha un’incombenza, / seduto o in piedi / le mani in grembo o sul corrimano / un occhio alla fermata / e la bocca serrata sul non senso del tutto. / Il mattino è brutale”.

Però, c’è anche una leggerezza (una “accusa” alla propria poesia che l’autrice riferisce in un testo), e una certa ironia, nel registrare l’ossessione odierna per il mangiare, e c’è chi descrive le proprie crêpes, acquistate in un negozio proprio in corrispondenza di una fermata, e chi invece vanta una vetrina di formaggi in un’altra strada, e topografia urbana e gastronomica si sovrappongono. Ma nell’andirivieni temporale, in chiusa del testo, e in controcanto all’apertura sull’oggi così attento al cibo (“Mangiare, / già soltanto parlarne è bello, / di questi tempi non si fa più altro”), si ricorda il tempo della giovinezza, quello del digiuno dell’anima.

Questa fenomenologia delle piccole cose riguarda ancora altro: il fumare; la seduta dalla parrucchiera (dove la ragazzina appena impiegata viene colta, nel suo momento di pausa, intenta a laccarsi le unghie); la sosta di una coppia al bar della stazione, con i due figli; la serata di un’altra coppia, in casa, lei alla sua scrivania (è l’autrice stessa), e lui, cioè (detto con ironia) “uno dell’altro sesso”, che sonnecchia: vicini e distanti. È come se tutto questo, nonostante la propria banalità, proprio nella sua banalità, debba essere pescato nella deriva incessante nel tempo. E la riflessione sul tempo è costante: “Non lo senti anche tu che non c’è più? / Il tempo non c’è più”. Allora, la necessità di una qualche forma di stabilità: “Non essere fumo / che se ne va da quel tetto di fronte, / (…) / Tramutarmi in albero, Signore, / platano acero ippocastano o tiglio / o ailanto, in uno di quei bastardi / che su un pugno di terra fanno un regno”.

Il tutto in un linguaggio “semplice” che, nota la Carpi nel libro, alla sua scrittura avvicina anche i giovani (che la raggiungono su facebook), ma non solo. Anche in questo libro, d’altra parte, come in qualcuno dei precedenti (vedi i versi di Quando avrò tempo, qui ripresi: “Sono i poeti dell’io scrivo ergo sono, / e l’uno ignora l’altro”), l’autrice considera la poesia di oggi: “Tanti poeti io non so di che trattino, / sono esercizi scritti / di ingegnosi primi della classe, / di normalisti, chi non ne ha incontrati?”. E subito dopo dichiara di voler tornare a leggere Eliot, Brecht, Szymborska. E in un testo successivo fa i nomi di Saba (la cui frequentazione, a detta di chi la legge, si sentirebbe nella scrittura della Carpi, forse per quella che possiamo chiamare profonda semplicità), di Giudici, di Zanzotto: “che siano i nostri ultimi poeti?”.

Se da giovani si cercava la luce, è però la sospensione della notte, spenta la radio che ha fatto compagnia, a dare tregua: è il proprio corpo ad assaporare il piacere, prima che “lo stupro della luce che ritorna” rompa l’incanto: “Sotto le coltri / con l’amante sonno / coi piedi tocco la felicità / tutto il corpo è speranza”.

enzo.rega@libero.it

E Rega è insegnante e saggista