Frontiera: fisica, convenzionale, ideale

Osservatorio sulla proliferazione semantica

di Bruno Bongiovanni

dal numero di gennaio 2016

Frontiera, s. f. Deriva dal latino frons e dal provenzale frontiera.

Nel 1213, a conferma del poi permanente rilievo militare del termine, compare in francese frontière come sinonimo di place forte (piazzaforte). Nel 1292, sempre in francese, si ha ville frontière (in seguito anche ville frontalière), ossia città di frontiera. E si pensa subito, tra spazi francesi e tedeschi, a Strasburgo. In italiano il termine si trova nel cronista fiorentino Malespini, in Giovanni Villani, in Lorenzo il Magnifico, in Guicciardini, ma è Machiavelli che si sofferma sulla questione militare nel libro secondo dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: “Quando il principe non ha buono esercito, avere le fortezze per il suo stato, o alle frontiere, gli sono o dannose o inutili”. Intanto, in inglese, nel 1400, era comparso il termine border (confine), ma lo stato che stava diventando la Gran Bretagna era circondato da tutte le parti dal mare, la qual cosa risulterà di giovamento rendendolo la massima potenza marittima del mondo e il più protetto dagli avversari. La frontiera è invece, in tutti gli altri casi, la linea di confine di uno stato che ne segna il limite di sovranità, e che lo separa da altri stati, o che divide, al suo interno, due o più circoscrizioni amministrative. È insomma la fascia di territorio situata lungo tale linea, ma non mancano le frontiere di guerra, ossia i tratti territoriali di uno stato lungo i quali si combatte e diventati confini particolari: la prima fila di uno schieramento di battaglia o l’avanguardia di un esercito. Vi sono inoltre frontiere naturali costituite da ostacoli fisici come le montagne o i fiumi: si pensi, a questo proposito, sempre tra gli spazi francesi e tedeschi, al Reno. Ma vi sono anche le frontiere artificiali, segnate da linee ideali o da indicazioni convenzionali, e naturalmente le frontiere politiche e geopolitiche, che possono derivare da differenti forme di governo o da differenti, e spesso rivali, identità etniche. Vi sono infine frontiere che, per ragioni geografiche, militari, o coloniali, seguono un meridiano o un parallelo.

La frontiera americana

Una caratteristica specifica e quasi unica, insieme alla corsa ad est dell’impero zarista, ce l’hanno gli Stati Uniti, che dispongono da tempo, lungo il confine con il Canada, della frontiera più lunga del mondo: 8893 chilometri. Sin dall’inizio, ad ogni buon conto, la frontiera americana è stata mobile, spostandosi progressivamente, con guerre e acquisti, dal nord ­Atlantico al Golfo del Messico e poi al Pacifico, ma anche, verso l’estremo oriente, oltre il Pacifico. La mobilità della frontiera deve essere considerata tra le cause principali della grande crescita della potenza americana. Occorre però partire dalla dottrina di Monroe, quando gli Usa grande potenza non erano. Venne formulata il 2 dicembre 1823 nel messaggio annuale al Congresso da parte del presidente Monroe. Riguardava la sostanziale distanza tra gli Stati Uniti e le potenze europee, le quali non potevano, secondo Monroe, estendere il loro sistema politico, nel nord e nel sud del continente transatlantico, “senza mettere in pericolo la nostra pace e la nostra felicità”. Il messaggio di Monroe, tuttavia, divenne una “dottrina”, e anche un credo nazionale, solo intorno al 1845, quando Inghilterra e Francia esercitarono invano la loro influenza per evitare l’annessione del Texas. Si può dunque affermare che tale dottrina e il Manifest Destiny, espressione inventata proprio nel 1845 dallo scrittore John O’Sullivan, siano due espressioni parallele, e affini, della politica statunitense. La frontiera americana promuove dunque, allargandosi enormemente nel tempo, il puritanesimo militante, l’avventura pionieristica, l’orgoglioso isolazionismo e la pulsione espansionistica.