Camminare: Hermann Hesse vagabondo in amore

Esperienza del mondo ed esperienza del sé

recensione di Luigi Marfè

dal numero di febbraio 2016

Hermann Hesse
CAMMINARE 
ed. orig. 1904-1920, trad. dal tedesco di Marco Licata
pp. 127, € 12
Piano B edizioni, Prato 2015

Hermann Hesse - Camminare“Niente è più odioso e più stupido dei confini; sono come cannoni, come generali: fino a quando domina la ragione, non se ne avverte l’esistenza, ma non appena esplode la guerra divengono improvvisamente sacri ed essenziali”, scriveva Hermann Hesse, camminando tra il Canton Ticino e la Lombardia, all’indomani della prima guerra mondiale, nel 1920, non lontano dalla casa di Montagnola dove si era ritirato a vivere da un anno, per scrivere e meditare a contatto con la natura. Era del resto già da tempo – almeno dal periodo in cui aveva immaginato il Peter Camenzind (1904), quando ancora non aveva potuto viaggiare in Oriente (1911) – che egli andava componendo saggi, poesie e articoli di viaggio: testi ora raccolti dalle edizioni Piano B in questo pregevole volume, nell’ottima traduzione di Marco Licata, sulla necessità di un distacco, di una separazione dal turbinio degli eventi, dalla fretta del mondo, dalle catene in cui l’abitudine finisce sempre per invischiare, con l’obiettivo di rimettere mano alla propria rotta, di riscoprire dentro di sé un equilibrio.
Girovagando a piedi – come in quegli stessi anni Hilaire Belloc ed Edward Hutton, e più tardi Patrick Leigh Fermor – Hesse ammette un solo nemico: il “pittoresco”. Da quando, domanda, i viaggiatori hanno fatto l’errore di scambiare la voce della natura con le finzioni del “pittoresco”? Il suo sguardo cerca al contrario lo stupore, la sorpresa, l’inatteso, e non può trattenere la rabbia, in particolare, per quel “pittoresco” d’accatto che, già all’epoca, impresari e albergatori cominciavano a fornire a turisti indifferenti a ogni reale esperienza percettiva, desiderosi, allora come adesso, solo di evasione. “La mia accesa nostalgia non dipinge più meravigliosi colori sulle velate lontananze, al mio occhio basta quello che c’è perché ha imparato a vedere”: viaggia davvero, secondo Hesse, non chi si accosta alla natura “cercando di asservirla per qualche scopo, qualunque esso sia”, ma chi le chiede, timidamente, di diventare una fidata interlocutrice.

Il doppio viaggio del viandante

“Oh, presto può arrivare il tempo della quiete e anch’io riposerò nella solitudine del bosco armonioso, ma nessuno qui sa di me, e nessuno qui mi conosce”, ha scritto Joseph von Eichendorff, l’autore di Aus dem Leben eines Taugenichts (Vita di un perdigiorno, 1826), esaltando il rassicurante anonimato del viandante, che in terre straniere è da tutti ignorato e, come il saggio, può ben dire a se stesso di aver imparato a “vivere nascosto”. È questa stessa solitudine a schiudere, per Hesse, i piaceri di una passeggiata tra i boschi, o del rumore del silenzio, o degli incanti che il caso crea tra le nuvole.
Le montagne si specchiano nei laghi, il viandante nel sentiero che percorre. “Viaggiare dovrebbe sempre significare esperire, sentire profondamente”, scrive Hesse, legando esperienza del mondo ed esperienza del sé, secondo l’antica tradizione del solvitur ambulando, che in precedenza aveva avuto la sua difesa più accorata in Walking (Camminare, 1862) di Henry David Thoreau. Entrare in intimità con la natura significa infatti consentirle, al tempo stesso, di accompagnare il viandante in direzione opposta, all’interno di quell’io che, a casa, sarebbe rimasto ignoto a se stesso: “La poesia del viaggiare è nell’organica assimilazione delle novità vissute, nell’accrescimento della nostra capacità di comprendere l’unità nel molteplice, il grande intreccio costituito da terra e umanità, nel ritrovare antiche verità e leggi in situazioni del tutto nuove”.

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Non tutti gli attimi sono di rivelazione, naturalmente. Un miracolo, ricorda Hesse, non si pretende; semmai lo si attende: “Il miracolo sfugge chi lo cerca, chi vuole attirarlo a sé. Il mio compito invece è fluttuare tra contrasti irrisolti e restare all’erta, se il miracolo vorrà sorprendermi”. Camminare richiede pazienza, sforzo, impegno; Hesse invita a pensare al vagabondare come a un atto d’amore, come a una fatica che sarà ricambiata, se il viandante si mostrerà entusiasta, fedele, disinteressato: “Come un’amicizia o un amore che si coltiva e per il quale si compiono sacrifici, come un libro che con saggezza si è scelto, comprato e letto, così ogni viaggio è un atto d’amore che comporta voglia di apprendere e spirito di sacrificio”.

Camminare, secondo Hesse, è una sorta di “terapia” della percezione, che senza sosta offre al viaggiatore nuovi medicamenti: “Noi viandanti siamo tutti così. La nostra smania di vita errante è in gran parte amore”, si legge in uno dei suoi testi, “Noi liberiamo l’amore dall’oggetto, ci basta solo l’amore, così come nel nostro vagare non cerchiamo la meta, ma solo il godimento del vagabondare in sé, l’essere in cammino”. A chi è “in cammino”, del resto, non serve altro “talento” se non quello di “pensare temerariamente”. Sa cogliere lo spirito di un luogo chi ha imparato a dare la giusta priorità alle cose, chi ha scelto, invece delle illusioni del mondo, di seguire le propria stella: “Casa non è qua o là. Casa è dentro di te, o da nessuna parte”.

luigi.marfe@unito.it

L Marfè è traduttore e dottore di ricerca in letterature comparate all’Università di Torino