Sui molti modi di raccontare la Sicilia

Un grand tour della nostalgia, del cuore e della memoria

di Domenico Calcaterra

dal numero di novembre 2016

massimo-onofri-passaggio-in-siciliaSi potrebbe iniziare da qui, da una Sicilia da raggiungere prima di tutto con gli occhi e gli orecchi della mente, luogo della fantasia e del desiderio. Del resto, Stendhal della Sicilia ha scritto senza averci mai messo piede, come racconta Sciascia nel delizioso libretto selleriano Stendhal e la Sicilia (Sellerio, 1984). Ma se Stendhal, pur avendolo vagheggiato, non riuscì mai a compierlo il suo viaggio nell’isola, per il Massimo Onofri di Passaggio in Sicilia (pp. 391, € 18, Giunti, Firenze 2016), che questa terra ha invece girato e respirato da sempre in lungo e in largo, si tratta adesso di uno stendhaliano ritorno: un «grand tour della nostalgia, del cuore e della memoria». In continuità con il precedente Passaggio in Sardegna (Giunti, 2015), nel riandare qui sulle tracce di una personalissima e più autentica geografia siciliana, Onofri ci consegna l’ennesimo «diario di viaggio con personaggi», salpando non a caso con i suoi compagni d’avventura proprio dalla Sardegna e con l’ulteriore strategico indizio di continuità (tra i due libri che compongono un dittico) dell’irrompere sulla pagina di un io che, a marcare lo iato tra mondo scritto e mondo non-scritto, ha bisogno di fondare la sua autenticità principiando, sintomaticamente, da una negazione: «Non è come nei primi giorni di maggio del 1860…» (espressione di un atteggiamento che, tra l’altro, è una delle chiavi di lettura di questo secondo capitolo di geografia esistenziale).

Al limite del fantastico

Ciò che più gli sta a cuore è restituire al lettore una Sicilia depurata dai luoghi comuni, svincolata dall’angusta oscillazione tra «giudizio e pregiudizio», così com’è stata invece raccontata agli italiani sin dai tempi di La Sicilia del 1876, la celebre inchiesta di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino. Immagine cristallizzata di un’isola alla cui rappresentazione ha contribuito la cattiva letteratura prodotta da certa cultura sicilianista, quella che, per dirne una, ha sempre distinto la mafia come organizzazione criminale da una diffusa (e tolleratissima) mentalità mafiosa che presuppone un preciso codice di comportamento (il cui fulcro etico è una tetragona omertà). La Sicilia rivisitata da Onofri ritrova se stessa soprattutto nel Barocco, da cui deriva, come risposta estrema, quella «nevrosi della ragione» di cui parlava Sciascia, e per cui i grandi autori siciliani hanno patito il ricatto dell’impegno (si pensi, accanto all’autore del Giorno della civetta, a Consolo); così come, per converso, ne è sorta un’irrevocabile presa di distanza, l’opzione eguale e contraria di un fiero e non meno risentito disimpegno (per esempio il Bufalino romanziere o la soledad di un poeta come Lucio Piccolo).

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Le saline di Trapani

Principiando da una simile volontà di scombuiare la consueta geografia isolana, non stupisce che Palermo (letta attraverso il filtro della letteratura siciliana della nuova Italia) diventi una città la cui esistenza è «al limite del fantastico», che Messina sia rimasta una «città senza», evanescente regno del «vuoto e della catastrofe», che tuttavia ritrova «razionalità e concretezza» nella sua provincia; che la sempre «cara e imprescindibile» Catania sia qui celebrata come culla per antonomasia dello «stilnovismo patologico», specialissima malattia della quale è irrimediabilmente affetto lo scrittore; che la storia arcinota di una cittadina come Gibellina, ricostruita altrove dopo il terremoto, sia invece il triste segno di come un’intera comunità sia stata messa a servizio dell’arte e della sua «disumana fatuità». E che dire dello scenario di speculazione e degrado offerto da città come Agrigento o Gela, emblemi tragici di un’antropologia tramutatasi, «dentro il paesaggio», in natura?

Guttuso e gli altri

antonio-dorrigo-horcynus-orcaIl viaggiatore non dismette poi la lente del critico, nel fornire fulminei e precisi ritratti di scrittori e artisti: da Vincenzo Consolo, la cui sola forma di «smemorata felicità» seppe trovare nella scrittura, a Renato Guttuso, «il pittore civile di sinistra che l’Italia non aveva mai avuto», entrambi appaiati, per quell’insinuarsi, negli affreschi storico-metaforici del primo e nelle grandi tele del secondo, dell’avvertimento, dentro la storia civile e politica, «di una storia sacra che è quella del dolore umano», portatori di un’analoga «metafisica della sofferenza» (mentre gli enigmatici paesaggi di Giuseppe Modica gli sembrano restituire una metafisica della «memoria collettiva», effigi di un mondo, in ultimo, irredimibile); da Ignazio Buttitta, che fa capire come la poesia civile non possa mai disgiungersi da un destinatario sociale, al poeta di Cutusìo, Nino De Vita, tra i «più puri che la nostra astiosa e fatua patria possa oggi vantare»; dal soavemente «provinciale e piccolo-borghese» Gesualdo Bufalino (tuttavia immune da una certa «etica del risentimento»), allo Stefano D’Arrigo di Horcynus Orca (1975), la cui ingegneria narrativa viene accostata al barocco borrominiano, per cui la poetica dell’«ornato» si concreta in portante «funzione».
E che dire, per rimanere sul terreno di quella spirale barocca così pervasiva nell’isola, del più esoterico dei poeti italiani, Lucio Piccolo, e della sua dimora Villa Vina che, per le molteplici passioni ivi coltivate dai tre fratelli (Lucio, Casimiro e Agata Giovanna), viene rassomigliata da Onofri a «una specie di aristocratico falansterio»? Come tacere, infine, del riparato torto verso un autore a lungo rimasto nel dimenticatoio come il palermitano Michele Perriera, oltre che uomo di teatro, luminoso saggista dalla vocazione narrativa con i personal essays e le note ai margini di La spola infinita (Sellerio,1995) e Con quelle idee da canguro (Sellerio, 1997)?

Un contagioso entusiasmo

Epperò, se non ci si pone una precisa domanda, del libro si è ancora detto poco o nulla: ossia, chi è a dire io? Per entrambi i Passaggi, vale pressappoco quanto Onofri scrive a proposito di Romanzo d’amore (Sellerio, 2002) di Michele Perriera: sono anche la storia, «quasi biologica», del personaggio Onofri; giacché «il personaggio-uomo va ora a coincidere perfettamente con lo scrittore», inscrivendo, nel raggio ampio del narrato, perfino l’implicito e privato romanzo amoroso che orbita attorno a poche fondamentali figure: la «principessa nuragica» Ini dalla quale pure prende congedo, la figlia adorata e lontana Nicoletta, l’incancellabile debito di gratitudine per il sicilianissimo zio Nicola. Quell’io, ancora, affetto da un inguaribile «stilnovismo patologico» che trova il suo rovescio (agnizione propiziata dall’amato Brancati) nella «nostalgia per ciò che viviamo», proprio mentre lo stiamo vivendo. Allo stesso modo per cui il contagioso entusiasmo è controbilanciato dal crudo avvertimento che la vita sia non solo tutto ciò che abbiamo, ma anche tutto quanto «dobbiamo patire». Come a dire che il personaggio-uomo Onofri sta racchiuso nell’irrisolta leopardiana contraddizione tra biologia e illuministica ragione da una parte, languore metafisico e poesia del nulla, dall’altra.

In definitiva, come il Fabrizio Clerici del consoliano Retablo (Sellerio, 1987), Massimo Onofri viaggia in Sicilia da «personaggio vero e insieme inventato» (o sarebbe meglio dire amplificato). Tutto ciò basta a discostare entrambi i Passaggi da un non meno ibrido e prezioso antecedente come Riviera. La via lungo l’acqua (Einaudi, 2010) di Giorgio Ficara: se quello del «più bello degli italianisti» (così Onofri) è un io atomizzato, discreto e come messo tra parentesi, particella di una sostanza più grande; qui rimbomba la voce, tanto ipertrofica quanto autoironica e sentimentale, dell’autore che rinasce, appunto, come personaggio. Ancora: se in Ficara aggalla, tra le pagine, come messo a fuoco, ciò che non si è compiuto, ciò che – nel cerchio del suo destino – sarebbe potuto accadere e invece è rimasto fuori, disatteso («la parte vuota, quella che fa posto ad altro, indeterminatamente»), in Onofri c’è l’impegno a collegare e decrittare i segni, a riconnetterli con passione, in un ebbro e ondeggiante ricongiungere – nel religioso e consapevole ascolto di un imperativo «saper stare al mondo» – i punti d’una figura di destino.
Qualche considerazione merita di essere svolta circa il tenore della narrazione: agitata, mossa, disposta secondo un euforico e naturale ritmo, quasi a competere con gli inimitabili stucchi serpottiani. Forse la risposta sulla felicità della sua cifra stilistica ce la suggerisce, inconsciamente, ancora una volta lo scrittore stesso, quando, chiosando il singolarissimo L’orologio di Pontormo (1998) di un indiscusso maestro del saggismo come Salvatore Silvano Nigro, parla dell’addentrarsi in un «territorio di frontiera, spurio, quello in cui le distinzioni tra i generi sono definitivamente cadute, mentre resta, per la stipula d’un nuovo e credibile patto col lettore, solo la garanzia d’uno stile d’una verità personale». E cosa fa Onofri, con i suoi due Passaggi, se non intonare un de profundis per il romanzo tradizionale e approdare a una maniera ibrida che tutto tiene insieme, senza distinzione, in una scrittura ariosa e rapsodica che si muove, asindeticamente, verso la messa a fuoco di una «verità personale»?

domenico.calcaterra@gmail.com

D Calcaterra è insegnante e critico letterario