Amitav Ghosh: Una grande lezione di non-innocenza

La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile

di Roberto Beneduce

dal numero di luglio/agosto 2017

Amitav Ghosh - La grande cecitàLeggere Ghosh è come immergersi in una città labirintica, dove una scrittura lucida e lineare evita però al lettore di smarrirsi, e ciò malgrado il brulicare infinito di temi e domande che affiorano a ogni sua pagina, in ogni nota, anche in uno scritto come questo, rivolto a trattare una questione precisa: la crisi climatica e la catastrofe che si annuncia. La riflessione che l’autore presenta in La grande cecità è attraversata da un interrogativo: quale letteratura s’impone a chi non voglia rassegnarsi a pensare il romanzo dentro i limiti della tradizione occidentale? Quale scrittura del disastro è possibile al di fuori dei canoni occidentali e borghesi, per i quali la narrativa è stata spesso solo un’“avventura morale e individuale”, scarsamente interessata alle collettività e ai loro destini?
Delle innumerevoli tracce che Ghosh dissemina intorno a queste domande, ne isolo solo alcune, quelle che più mi paiono rivelatrici della prospettiva dell’autore, e che più direttamente concernono la questione del riscaldamento globale, il processo che lo ha determinato, e quanto rimane spesso oscurato dal dibattito intorno ad esso. Innanzitutto: il ruolo dell’aneddoto, lievito di un libro che non intende rinunciare ai ricordi personali quando si tratta di analizzare la tragedia della crisi ambientale. Ghosh ha uno spiccato gusto per l’archivio, per usare la formula di Arlette Farge, un archivio dove sono convocati insieme memorie private e numeri dimenticati (la storia familiare, l’esperienza del tornado del 1978 a Delhi, il discorso alla madre per convincerla a scegliere un luogo più sicuro dove vivere e lo sguardo attonito di quest’ultima; ma anche i morti delle innumerevoli calamità che si sono succedute in questi decenni, in Asia o in Europa). E quando mi sono reso conto di aver dimenticato i 300.000 morti del ciclone di Bhola, di non sapere nulla dei 138.000 morti del 1991 in Bangladesh, o non aver più pensato alle migliaia di vittime – soprattutto anziani – provocate in Europa da una incredibile ondata di caldo, mi sono detto che in questi fatti c’è qualcosa che rimane difficile da pensare, e che Ghosh ci spinge invece a guardare, con delicatezza ma senza esitazione, sapendo bene che riconoscere questo aspetto del presente è “perturbante”, Unheimlich (estraneo e familiare, e pertanto rimosso, nel senso proprio che a questo termine dà la psicoanalisi), e tuttavia decisivo.

Riannodare la storia

Ghosh tesse fili coraggiosi, come aveva già fatto in Lo schiavo del manoscritto (Neri Pozza, 2009), intrecciando epoche, biografie, città. Il frammento di una lettera era diventato in quel caso la sorgente di una straordinaria avventura alla scoperta di voci e destini dimenticati. Non siamo lontani da quanto ci ha abituato a vedere la microstoria, ma a imporsi in queste pagine è anche quello slancio caratteristico dei subaltern studies, il cui progetto è connettere eventi diversi, e “riannodare la storia”, per riprendere le parole di Gramsci. Una storia sminuzzata dalla chirurgia semantica degli esperti, o dalle retoriche del neoliberalismo, ma che Ghosh riesce a far rivivere utilizzando con sapienza persino statistiche, dati e numeri (gli stessi che altri studi rovesciano spesso sulle nostre teste senza effetto, o determinando solo un’afflizione passeggera, e che qui vogliono farsi invece anche testimonianza dolente di quei morti dimenticati, di quelle tragedie troppo in fretta messe da parte).

Riprendendo le ipotesi di Jack Goody (Il furto della storia, Feltrinelli, 2008), Ghosh ci rammenta come anche nei discorsi sul riscaldamento globale siano stati oscurati altri soggetti e altri processi, e più in particolare il ruolo di altre economie e scoperte: lo sviluppo delle navi a vapore e i cantieri navali indiani, affondati per effetto di una legge britannica che non poteva tollerare che del carbone facessero uso altri paesi; l’industria petrolifera, importante per la dinastia Konbaung, in Birmania, già nel Settecento, ben prima della data solitamente celebrata (quella del pozzo di Oil Creek, in Pennsylvania, nel 1859).

Il mito del consumismo illimitato

Ma dopo aver criticato la presunzione con la quale l’Occidente attribuisce a sé, sempre e soltanto a sé, il primato e il monopolio di scoperte, istituzioni, talenti, o modelli di sviluppo, l’autore non si ritrae di fronte a due paradossi. Il primo: “L’imperialismo ha forse ritardato l’avvento della crisi climatica tenendo a freno l’espansione delle economie asiatiche e africane? (…) A me pare che la risposta sia quasi certamente affermativa”. Il secondo: “Gli stili di vita nati dalla modernità sono praticabili solo per una piccola minoranza della popolazione mondiale”. Due verità fastidiose, due contraddizioni dalle quali ancora non siamo disposti a trarre tutte le conclusioni, eppure da analizzare con urgenza quando si vogliano comprendere le ragioni dell’ostilità diffusa in molti paesi ad accettare la riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Con un paragone forse irriverente, si potrebbe dire che qualcosa di simile accade nel cristianesimo protestante africano: che di fronte ai discorsi di una chiesa cattolica da anni impegnata nella denuncia degli sprechi e del consumismo, miete successi e conversioni asserendo invece i principi di un “vangelo della prosperità”. Non è un caso che l’autore ricordi come l’invito di Gandhi a non seguire il modello dell’economia occidentale e le promesse di un consumismo illimitato sia stato rifiutato dalla destra indiana e abbia determinato la sua tragica fine.

La scrittura di Ghosh è una grande lezione di non-innocenza, che invita a chiedersi quale sia il pegno che le nostre generazioni dovranno pagare per il cieco sviluppo che il capitalismo ha imposto alle nostre esistenze. Ma è anche un paziente lavoro che, dagli archivi coloniali a oggi, non smette di denunciare la violenza di categorie, giudizi e discorsi che hanno costruito il sentimento diffuso in larga parte del mondo di essere in ritardo. Sullo sfondo di queste considerazioni emerge una traccia ulteriore, che mi preme evocare: quella che dal riscaldamento globale, dalla riduzione dei terreni coltivabili e dalle inondazioni che ricoprono sempre più estese aree del pianeta, vede sorgere la questione della migrazione detta “climatica”. Si tratta di un fenomeno al quale pochi rivolgono ancora la propria attenzione, spesso accontentandosi di evocare, accanto a quella degli “immigrati economici” e dei “richiedenti asilo”, solo un’altra inutile etichetta. Si tratta invece di un processo drammatico, di cui non abbiamo ancora misurato le dimensioni e gli effetti, e che sta a ricordare come per molti l’apocalisse non sia il tema di miti lontani, né il delirio di chi ha smarrito la ragione, ma una realtà concreta.  Il motivo delle apocalissi culturali e psicopatologiche discusso da Ernesto de Martino, le riflessioni sulle “paure della fine” analizzate in un recente lavoro da Viveiros de Castro e Danowski, e l’urgenza di pensare un’epistemologia all’altezza dei problemi del nostro tempo (Latour, Stengers, ecc.), s’intrecciano alle considerazioni di Ghosh e definiscono come un programma di ricerca per chi non intenda più distogliere lo sguardo da una minaccia di cui conosciamo le cause, e i rimedi. Malgrado il sentimento di impotenza che i dati discussi comunicano al lettore, Ghosh non cessa tuttavia di sperare (e noi con lui) che “una grande ondata di movimenti laici di protesta in tutto il mondo” possa fermare questo processo, accendendo dal basso quelle trasformazioni che non possiamo aspettarci (solo) da coloro che occupano il ruolo di decisori e ci governano.

Nel numero di luglio/agosto 2017, Daniela Fargione intervista lo scrittore e Carmen Concilio recensisce La grande cecità.