Gentrification: come cambia la natura sociale di un quartiere

Scacciare, distruggere e ricostruire

di Marzio Barbagli

dal numero di gennaio 2016

gentrificationRecentemente, a Firenze, in un argine dell’Arno vicino al ponte Amerigo Vespucci, è apparsa, in grandi caratteri, la scritta “no gentrificazione”. Speriamo che i turisti inglesi e americani che visitano l’Italia non la prendano troppo sul serio e non pensino che non vi sono differenze fra il loro e il nostro paese. Nonostante che da noi l’anglomania furoreggi da tempo, nonostante che il numero degli anglicismi dei quali ci serviamo sia enormemente cresciuto e non smetta di crescere, il termine gentrification continua ad esserci estraneo. Del tutto assente nel linguaggio comune, esso compare molto raramente anche nei saggi dei sociologi, degli economisti, degli urbanisti, degli architetti o dei geografi italiani. Purtroppo. Purtroppo perché, sostiene in questo bel libro Giovanni Semi (Gentrification. Tutte le città come Disneyland?, pp. 237, € 22, Il Mulino, Bologna 2015), è difficile capire come siano cambiate le città italiane e quelle dei paesi occidentali senza sapere cosa è la gentrification.
In inglese questo sostantivo è stato introdotto mezzo secolo fa da una studiosa immigrata a Londra, la sociologa marxista tedesca Ruth Glass. “Ad uno ad uno – scrisse nel 1963 questa studiosa – molti dei quartieri operai di Londra sono stati invasi dalle classi medie (…). Piccole, modeste case – due stanze al primo piano, due al piano terra – sono state rimesse a posto alla scadenza del contratto di affitto e sono diventate residenze eleganti e costose. Case vittoriane ben più grandi, declassate nel periodo precedente – divise in appartamenti o in stanze ammobiliate – sono state riportate al livello di un tempo (…). Quando questo processo di gentrification inizia in un distretto, esso va avanti rapidamente finché tutti o la maggior parte degli operai che occupano un’abitazione sono spostati fuori e la natura sociale del quartiere muta”. Ruth Glass coniò questo termine per indicare l’ascesa di una nuova gentry urbana, ricordando, con un po’ di ironia, la nobiltà minore, agricola, che nell’Inghilterra del Sei-Settecento era collocata fra l’aristocrazia e gli altri ceti. Ma da allora esso è entrato nella letteratura scientifica per descrivere e cercare di spiegare quei frequenti e dolorosi processi che hanno luogo nelle città: l’uscita, da alcune aree, di famiglie a basso livello di reddito, la ristrutturazione delle case nelle quali abitavano e l’entrata di persone appartenenti ai ceti medio alti. Nel corso del tempo, l’uso di questo concetto è cambiato e, recentemente, esso è stato definito da alcuni studiosi come “la produzione di spazio urbano per utenti sempre più affluenti”.

I processi micro e macro della gentrification

Il libro che Giovanni Semi dedica a questo tema è al tempo stesso un’introduzione per coloro che non ne sanno niente e una guida per quelli che vogliono approfondire le loro conoscenze. L’autore è un sociologo quarantenne (dunque giovanissimo, o almeno giovane, secondo la definizione oggi vigente nell’università italiana), che si è formato professionalmente facendo ricerca etnografica, cioè vivendo per un po’ di tempo in un quartiere (Porta Palazzo a Torino) molto diverso da quello in cui ha passato l’infanzia e l’adolescenza, frequentando alcuni dei suoi abitanti, osservando come agiscono e interagiscono, studiando il tessuto sociale che si forma e riforma quotidianamente. Come i suoi predecessori, si è occupato allora soprattutto degli strati marginali della popolazione: gli immigrati. È da quella esperienza che è nato il suo interesse per la gentrification, dalle osservazioni fatte allora nelle vie rimesse a nuovo intorno a piazza Emanuele Filiberto.

Il mercato di Porta Palazzo a Torino

Il mercato di Porta Palazzo a Torino

Ma per affrontare questo nuovo tema ha dovuto cambiare, almeno in parte, prospettiva e metodi di indagine. Si è immerso nella vastissima letteratura scientifica in lingua inglese sull’argomento. Ha analizzato non solo i gruppi sociali che escono o vengono allontanati dalle aree urbane degradate, ma quelli che, in diversi momenti, traggono vantaggi, talvolta cospicui, dal processo di gentrification: gli individui o le coppie dei ceti medio-superiori che prendono il loro posto in abitazioni ristrutturate e molto più costose, gli imprenditori edili, che distruggono e ricostruiscono le case, le strade, le piazze, e che devono il loro successo alla loro capacità di prevedere la domanda, i “professionisti dell’intermediazione”, gli agenti immobiliari. Ha concentrato il suo interesse non solo su quanto avviene a scala micro, sull’interazione nei pianerottoli, nelle boutique vintage o nei locali notturni, ma anche sui processi macro, sui grandi cambiamenti che hanno avuto luogo nei paesi occidentali dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, la deindustrializzazione, la terziarizzazione, il declino della popolazione urbana. Si è servito non solo dei risultati della ricerca etnografica (sua o di altri), ma anche di informazioni ricavate dalle più diverse fonti, di dati quantitativi e serie storiche.

La gentrification, un processo inevitabile?

L’autore, partendo dall’ambizioso progetto di trasformazione radicale di Parigi che, alla metà dell’Ottocento, Napoleone III affidò al prefetto della Senna, il barone Eugène Haussmann e passando attraverso i mutamenti urbani avvenuti a New York, a Chicago e a Londra, giunge all’analisi del processo di gentrification che vi è stato negli ultimi trenta o quaranta anni nelle città dell’Italia centro settentrionale, a Genova, Torino, Milano e Roma. Ma non si limita a descrivere e a cercare di spiegare cosa è successo nelle grandi città dei paesi occidentali. Prende posizione, si schiera e sottopone a un severo giudizio morale e politico l’allontanamento da alcune aree urbane degli strati più deboli della popolazione. Rifiutandosi, giustamente, di considerare inevitabile il processo di gentrification, si interroga sul da farsi e propone delle linee di azione a due diversi pubblici, ai policy makers, che progettano e realizzano le politiche urbane, e ai cittadini che sono stati investiti da tale processo o che fanno parte di movimenti sociali.

Parigi - Place de l'Etoile e Arco di trionfo

Parigi – Place de l’Etoile e Arco di trionfo

Da questo libro emerge con chiarezza che vi sono alcune rilevanti somiglianze fra i processi di gentrification avvenuti o in corso negli Stati Uniti, nel Regno Unito o nei paesi dell’Europa continentale. Dalla fine degli anni sessanta del Novecento, in tutte le città di questi paesi è cresciuta la quota delle famiglie appartenenti alla classe media impiegatizia e alla borghesia. Ovunque, questi processi sono stati messi in moto, o quanto meno favoriti, dai portatori di solidi interessi materiali, da speculatori immobiliari, imprenditori edili, professionisti dell’intermediazione. Ovunque, alla testa del mutamento vi sono stati gli appartenenti al nuovo ceto colto, gli studenti universitari, gli artisti, i giornalisti, gli architetti, i fotografi, gli insegnanti, i ricercatori, che si distinguono dagli altri per lo stile di vita, per i negozi che scelgono e quello che comprano, per le cose che leggono e le abitazioni dove vivono.

Trovo però ancora più interessanti le differenze fra le città dei paesi ricordati, quelle differenze alle quali il libro di Semi dedica poco spazio e che ci aiutano forse a capire perché il termine gentrification abbia finora stentato a entrare nel linguaggio comune e negli articoli delle riviste scientifiche non solo in Italia ma anche in Francia. In molte città dell’Europa continentale, la “produzione di spazio urbano per utenti sempre più affluenti” è iniziata molto prima che a Londra, a New York o a Chicago ed è stata caratterizzata da un forte intervento dello stato, volto a rigenerare e riqualificare interi quartieri. Il modello dell’urbanistica chirurgica del barone Haussmann non fu seguito solo a Parigi, ma fu ripreso in Belgio, in Olanda e in Italia. La politica degli sventramenti, degli espropri e della demolizione delle case più umili, con conseguente allontanamento degli strati più poveri della popolazione da alcune aree del centro storico per farne il salotto della borghesia, fu inaugurata a Milano subito dopo l’Unità e ripresa a Genova, a Torino, a Bologna, a Firenze, a Roma e a Napoli venti o trenta anni dopo. In nessuna delle città inglesi e americane l’espulsione delle famiglie di questi ceti è stata promossa dallo stato e realizzata con l’intervento delle forze dell’ordine. In nessuna è stata tanto violenta e brutale. Per nessuna di esse si sarebbe potuto dire quello che, all’inizio del Novecento, Matilde Serao scrisse dei pescatori di Santa Lucia: “Scacciati dalle demolizioni, sono rientrati, rientrano la notte ad abitare le rovine, e si gittano alle ginocchia dei demolitori, per non essere perseguitati dalle guardie, dai carabinieri, e piangono, e gridano, e urlano, non vogliono andare via, non sanno andare via, e alcuni di essi, o pietà grande, abitano, adesso, nelle grotte onde è forato il monte Echia”.

Sobborghi di Londra

Sobborghi di Londra

La seconda grande differenza ha a che fare con la collocazione delle classi e dei ceti nello spazio urbano. A Londra, a Manchester, a Liverpool, a Chicago, l’industrializzazione spinse le famiglie della borghesia a lasciare le città e ad andare a vivere nei sobborghi. Questo non è invece accaduto né a Parigi né nelle città del triangolo industriale italiano. A Milano, a Torino, e a Genova, dopo la nascita delle industrie, le famiglie più agiate rimasero nella città antica, mentre in periferia andarono a vivere quelle della classe operaia, perché le fabbriche furono create e si moltiplicarono fuori dalla mura. Curiosamente, in Italia, le città nelle quali l’aristocrazia e la borghesia hanno lasciato i centri storici per trasferirsi nei suburbi sono state Napoli e a Palermo, ma un secolo e mezzo prima di essere toccate dall’industrializzazione.

Gli studiosi di scienze sociali che amano le analisi di lungo periodo troveranno conforto nel sapere che, ancor oggi, per capire l’origine di questa seconda, grande differenza fra le città occidentali, una delle letture più istruttive resta De nobilitate, il saggio che Poggio Bracciolini scrisse alla metà del Quattrocento.

marziobarbagli@gmail.com

M Barbagli è professore emerito di sociologia all’Università di Bologna