James Ellroy – Perfidia

Dal noir al romanzo storico: contronarrazioni americane

recensione di Andrea Carosso

dal numero di giugno 2015

James Ellroy
PERFIDIA
ed orig. 2014, trad. dall’inglese di Alfredo Collitto, pp. 882, € 22
Einaudi, Torino 2015

In Il complotto contro l’America (Mondadori, 2005) Philip Roth proponeva una storia alternativa degli Stati Uniti in cui Franklin Delano Roosevelt era sconfitto alle presidenziali del 1940 da Charles Lindbergh, sulla scia di una campagna elettorale condotta sotto lo slogan “Votate per Lindbergh o votate per la guerra”. Una volta presidente Lindbergh, che non ha mai nascosto le sue simpatie nei riguardi del nazionalsocialismo, dichiarava la neutralità degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale e lanciava una strisciante campagna antisemita nel paese.


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’ultima fatica letteraria di James Ellroy, Perfidia, ci riporta, sebbene in contesti del tutto differenti, a quello stesso clima di conflitto interno e ambivalenza che accompagnarono l’intervento americano nella seconda guerra mondiale. Evocando nel titolo il suadente swing di Glenn Miller, ma anche un mondo segnato dell’inganno e della doppiezza, Perfidia esplora, come già aveva fatto Roth, l’atmosfera di inquietudini e tradimenti di ­un’America in cui violenza, antisemitismo, anticomunismo e xenofobia flirtarono pericolosamente con lo spettro di una svolta autoritaria e antidemocratica.

Nel prologo, The Thunderbold Broadcast, assistiamo a un discorso radiofonico (inventato) di Gerald K.L. Smith (personaggio realmente esistito), pastore protestante assai noto al tempo per gli strali antisemiti e razzisti che a quel tempo lanciava con cadenza settimanale attraverso un programma diffuso capillarmente nel paese. È il 5 dicembre 1941, a soli due giorni dall’attacco a Pearl Harbor, e il pastore Smith dà voce alla bile anti-interventista e nativista con toni che riecheggiano la visione di Lindbergh: “L’apparato di controllo degli ebrei ha voluto questa guerra, e adesso è nostra, che la vogliamo o no (…). Nazisti e giapponesi hanno scatenato tutte le loro forze, e la guerra si dirige rapidamente verso di noi, che non la meritiamo e non la volevamo (…). Si, amici miei, diventa sempre più ebrevidente: questa guerra voluta dai comunisti si dirige verso di noi. Che lo vogliamo o no”.

Ancora poche decine di pagine e gli Stati Uniti sono colpiti a Pearl Harbor e dichiarano l’entrata in guerra. Pur non trattandosi di un romanzo di guerra, le vicende (finzionali) di Perfidia si muovono in parallelo, e sono mosse, da quelle (reali) dell’ingresso degli Stati Uniti nel conflitto mondiale, nei giorni immediatamente successivi l’attacco. Nel romanzo, personaggi storici realmente esistiti e ­personaggi di invenzione intrecciano i loro ­destini e partecipano alla creazione di un affresco di grande respiro sulla California dei primi anni ­quaranta.

James Ellroy - PerfidiaSiamo a Los Angeles, dove l’indagine su una vicenda da cronaca nera si snoda in tempo reale lungo l’arco dei 23 giorni che vanno dal 6 al 29 dicembre 1941. La storia inizia al Whalen Drugstore, nel cuore del downtown, dove la polizia è impegnata in quella che sembra un’inchiesta di routine su una rapina a mano armata appena avvenuta. L’attenzione del lettore inquadra Hideo Ashida, giovane e brillante agente della scientifica, alle prese con un meccanismo di sua invenzione che consente di fotografare le targhe dei veicoli che si posteggiano davanti alla farmacia. Eroe di una Csi ante-litteram, Ashida è un nippo-americano in forza al famigerato Lapd, il Los Angeles Police Department, covo di sbirri bianchi violenti, fascistoidi e corrotti che da trent’anni è il fulcro della tensione creativa di Ellroy. Ashida, laureato in scienze forensi, è uno specialista di analisi chimiche e biologiche e sono proprio le sue competenze professionali a consentirgli di barcamenarsi, sebbene a malapena, in un dipartimento e in un’America che il precipitare degli eventi gli hanno reso dichiaratamente ostili. Ashida è anche omosessuale, ma cerca di tenerlo nascosto ai colleghi, perlomeno per quanto è capace.

Ashida si rivela particolarmente prezioso all’Lapd quando, la sera di quello stesso giorno, si presenta un secondo, più urgente caso da indagare: una famiglia di quattro persone di origine giapponese, i Watanabe, vengono trovati morti nella loro abitazione, in quello che inizialmente appare seppuku, il suicidio rituale che consiste nel taglio del ventre. Ashida analizza reperti, pondera le contraddizioni logiche di una messa in scena implausibile e stabilisce che si tratta non di suicidio ma di omicidio. Sono le 7 e 17 di domenica 7 dicembre, giorno fatidico dell’attacco giapponese all’America, e ci troviamo intorno a pagina 100 del libro: il proscenio è allestito perché la vicenda, ancora tutta da venire, si dipani nelle ottocento pagine che seguiranno.

Su quel proscenio si intrecceranno tre storie principali (e una miriade di sub-plot): una riguardante l’indagine sulla morte dei Watanabe, che fa da catalizzatore all’intero romanzo, e l’utilizzo politico che di essa fa l’Lapd, interessato non tanto a stabilire la verità quanto a riabilitarsi dalle accuse di razzismo; la seconda riguardante gli internamenti dei nippo-americani e la rete di sciacallaggio e speculazione che questi scatenano: i giapponesi d’America appartengono prevalentemente a una piccola imprenditoria agraria e il loro internamento avvia una feroce caccia all’appropriazione delle loro proprietà incustodite; nella terza vicenda si intersecano i tentativi di un poliziotto ambizioso di sgominare una rete di simpatizzanti comunisti a Hollywood.

Le vicende sono narrate da quattro punti di vista che si alternano e che coincidono con i quattro protagonisti principali del romanzo. Il primo è, appunto, Ashida, eroe morale ma non senza macchia, unico nippo-americano in forza alla Lapd e facile obiettivo della retorica xenofoba dei suoi colleghi che imprecano contro i “giappo” e le “mele marce che adorano l’imperatore”. Schiacciato dalla pressione xenofoba del dopo-Pearl Harbor, Ashida si dimostrerà pronto a cedere pezzi della sua integrità pur di scampare all’internamento. Di questo beneficerà il secondo protagonista del romanzo, Dudley Smith, poliziotto senza scrupoli, incarnazione di un potere corrotto al punto da essere marcio e sostanzialmente irriformabile. Smith – che il lettore di Ellroy ritrova da LA Confidential (Mondadori, 1997), Il grande nulla (Mondadori, 1990) e White Jazz (Mondadori, 1992) – si muove in un universo morale e strategico opposto a quello di Ashida.

E proprio perché il suo ethos non si richiama né a una morale condivisa né a un qualsivoglia senso della storia, Smith simboleggia un livello di brutalità suprema e incontrollabile, ancora più del suo capo William H. Parker, terzo protagonista del romanzo e altra vecchia conoscenza degli ­aficionado di Ellroy. Parker, personaggio realmente esistito e qui in ­carriera verso il comando dell’Lapd, è alcolizzato e incarna l’ambiguità tutta cattolica di chi è costantemente in bilico tra il male quotidiano e il senso di colpa; per di più è ossessionato dai comunisti, che vede come maggiore minaccia alla pace nel mondo. Nel tentativo di infiltrare le élite hollywoodiane in odore di bolscevismo, Parker si serve di Kay Lake, quarta protagonista del romanzo e anch’essa già nota al pubblico di Ellroy, giovane donna contesa da Dwight “Bucky” Bleichert (già narratore di Dalia nera, Mondadori, 1991) e Lee Blanchard (anch’egli un ritorno dai precedenti romanzi) e di cui solo Parker conosce il passato inconfessabile.

I quattro (Ashida, Smith, Parker e Kay) sono la punta di un iceberg poderoso di personaggi (poco meno di 150, debitamente elencati a fine romanzo, come in un dramma shakespeariano) che popolano la vicenda. E se, come detto, molti di questi sono vecchie conoscenze della galassia narrativa di Ellroy, ciò avviene perché Perfidia si configura come primo volume di una nuova tetralogia su Los Angeles, le cui vicende cronologicamente precorronoquelle dei romanzi precedenti e si innestano in essi per ricollocarli in un più ampio progetto di romanzo storico sull’America nel terzo centrale del ventesimo secolo, tra il 1941 e il 1972. Con Perfidia Ellroy tenta un’operazione ambiziosa: spostare la sua fiction dalla nicchia del romanzo di genere (il poliziesco) al ben più importante fronte, appunto, del romanzo storico, concorrendo alla grande contro-narrazione della storia dell’ascesa degli Stati Uniti da giovane nazione a superpotenza mondiale già iniziata dallo stesso Roth, DeLillo, Doctorow e Pynchon, solo per citarne alcuni. Parlando proprio di DeLillo, in un’intervista rilasciata in Italia durante il tour promozionale del libro, Ellroy ha esposto il suo disagio tutto muscolare a essere affiancato a questi giganti: “Da DeLillo ho imparato molto, ma il migliore sono io”.

È fuori dubbio che alcuni tra i momenti più riusciti di Perfidia, romanzo tanto ammirevole quanto imperfetto, derivano proprio dalla ricostruzione delle conseguenze della febbre bellica che si impadronisce di Los Angeles all’indomani di Pearl Harbor, i cui abitanti non si chiudono in casa ad ascoltare alla radio le notizie dal fronte, ma al contrario si riversano nelle strade, corrono ad arruolarsi e danno voce a un razzismo tanto abietto quanto casuale, imbevuto di discorsi sull’eugenetica e sulla purezza della razza, dai quali nessun elemento “altro” è esente (giapponese, messicano, ebreo o cinese che sia) con buona pace del mito del melting pot. Ellroy in ­Perfidia allarga definitivamente la portata del suo esperimento letterario. Capovolgendo il paradigma-guida del suo genere di prima adozione, il poliziesco appunto, la sua fiction non cavalca la tesi consolatoria che dietro al male individuale operi una giustizia collettiva in grado di esporlo e ­contenerlo.

andrea.carosso@unito.it

A Carosso insegna letteratura nord-americana all’Università di Torino