Fulvio Irace – Codice Mendini

La poltrona Proust: Luigi XVI + Depero + pixel

recensione di Manlio Brusatin

dal numero di settembre 2016

Fulvio Irace
CODICE MENDINI
Le regole del progettare
pp. 366, € 130
Electa, Milano 2016

Fulvio Irace - Codice MendiniSopra una corda tesa tra Arte & Design e Design & Arte c’è un ampio spazio di equilibrio. Qui cammina l’acrobata Mendini. Ogni dubbio che il design sia arte contemporanea evapora e si dissolve. Fenomenale come Alessandro Mendini cominci con una dedica «agli amici architetti impegnati», e ridisegni su una copia del noto Campo di papaveri di Claude Monet una semplice casetta. La più desiderata al mondo, rispetto a una città utopica sopra la quale volavano le ombre sinistre degli urbanisti, lasciando un concime piuttosto sterile sopra una «città ancora senza cucchiaio». «Voglio così la mia casa»: così dice Mendini imitando volutamente quella «immaginazione al potere» dove però era la casa a scomparire, la sola che poteva evocare un oggetto tanto semplice come un cucchiaino, con il suo suono mattutino dentro a una tazza di caffè appena versato dalla Moka dell’ingegner Bialetti. Ecco, l’immagine del cucchiaio che risuona in una tazza riporta in Mendini quel senso di tempo perduto ma ritrovato, sul quale si era fermato anche il piede di Proust che camminava accorgendosi della diseguaglianza delle pietre del pavimento. Sensazione minima quanto familiare che lo riportava, dopo un lungo viaggio della mente, unicamente a casa.

Maestri del design verso l’isola della postmodernità

Fulvio Irace, che ha avuto il premio di trasmetterci questo Codex, si ferma all’inizio in un momento importante, quando Mendini, pur sulla scia dell’architettura disegnata promossa da Aldo Rossi, Arduino Cantafora e Massimo Scolari, si trattiene sulla soglia interiore di un diario personale. Circostanza che l’ha portato a fondare il laboratorio di Alchimia (dal 1976) in una dimensione più interna e particolare del miraggio dell’Architettura della città di Rossi (Città studi edizioni, 1966). Quest’ultima è stata comunque una vera conversione culturale rispetto ai mulini a vento dell’urbanistica, che registrava una serie di débâcles proprio per l’inaderenza pianificatoria al contesto del territorio italiano, semmai da ricucire partendo dalla casa e dal suo interno, sollecitando la pratica di un design che guardava prima di tutto alla produzione delle arti. I gruppi di Archizoom e Alchimia infatti sembrano quasi essere concorrenti, nel senso che corrono insieme da due punti diversi verso un’unica direzione: una dimensione teorico-critica in Andrea Branzi e una artistico-letteraria in Alessandro Mendini. Due vie confluenti in un’unica fase, che ha tracciato il seguito della storia dei «celebrati maestri del design» verso l’isola della postmodernità, che è stata forse l’ultima Golden Land dell’architettura italiana, con sogni a occhi aperti e spazi autentici. Di fronte stavano i miraggi insostenibili del ferro & vetro delle Archistar indifferenti tanto al luogo quanto alla materia, ma soprattutto al dettaglio che è, come si sa, il demone felice delle arti italiane.

Alessandro Mendini - Poltrona Proust

Alessandro Mendini – Poltrona Proust

Nella maggiore occasione espositiva del postmoderno in Italia: La presenza del passato alla Biennale architettura di Venezia (1980), dentro una strada da Cinecittà fatta di case di cartone belle e meno belle, Mendini proponeva in un interno ricreato l’Oggetto Banale. Si trattava dei luoghi affettivi timidamente legati alle «care cose di pessimo gusto», nei quali era immersa la società italiana che ambiva al sogno di una casa che non c’era ancora, ma già arredata con i mobili di Cantù o di Cerea, luoghi comunque di buona fattura artigianale, ma con quel lato kitsch che è sempre stato l’altra faccia dell’artigiano lasciato a se stesso.

Una sedia Luigi Sedici un po’ Proust e un po’ Seurat

Sfogliando e guardando oltre, perché il Codice è un libro da guardare (e anche «da non leggere» come avrebbe detto Bruno Munari) per i disegni vibrati e come percorsi da una scarica elettrica, che si susseguono con tutta la meraviglia del pop-up. Così i segni di un inedito Saul Steinberg diventano a colori nella caricatura del Mago Mendini che ci ha inseguito fin dentro al bosco. Perché cammina cammina, nella saga di Mendini si arriva finalmente alla radura (una filosofica Lichtung) dove si apre a tutti il mistero della storia. C’è infatti un nucleo centrale in tutta la leggenda di Mendini, e un interrogativo curioso anche se non giallo. Quando si parla di Poltrona Proust si parla di un prodotto che non è solo né una poltrona né una sedia. Ciò che ci si chiede è come una finta sedia Luigi Sedici, il flash di una Dimanche après-midi à la Grande Jatte di Georges Seurat e un frammento di «tempo ritrovato» di Proust, possano generare qualcosa. Riuscire a mettere insieme queste tre cose e farle sparire per far apparire un oggetto concreto è come scoprire le «virtù» della polvere pirica, mescolando insieme scaglie di carbone vegetale (13 per cento), aghi di zolfo (12 per cento) e guano di piccione (75 per cento).

La poltrona di un Luigi Qualunque, restando a Proust, potrebbe essere appartenuta al salotto dei Guermantes come dei Verdurin e infine far parte del «matrimonio» immobiliare Verdurin-Guermantes, ma il pointillisme di Seurat, pur interpretato da impressionisti e da futuristi, non poteva che passar sopra ai gusti di un Proust che era invece inebetito davanti al «piccolo muro giallo» di Vermeer, come lo potevano vedere solo lui e il suo alter affranto Bergotte. Ora, per riuscire a mettere insieme queste tre cose e produrre una reazione chimica esplosiva ci vuole del genio o della magia, come, per i fratelli Lumière, inventare il cinematografo vedendo la loro mamma accanto alla macchina da cucire. Il capitolo centrale del Codice in esame si intitola appunto Metodo Proust, con Fulvio Irace come testimone oculare che racconta di questo sacro fuoco, ora fatuo ora folle.
Ma l’evocazione del puntinismo e una lettura frammentata di Proust vanno riportate da una dimensione di pura citazione a ciò che stava avvenendo nella trasformazione moderna della visione pop, come la televisione a colori (introdotta in Italia nel 1977), dove si possono percepire meglio i piccoli punti luminosi (pixel) dei colori additivi. Anche l’elaborazione pop dell’iperrealismo ha prodotto (in Chuk Close e altri) quel realismo televisivo ri-dipinto in punti e linee colorate visti attraverso il monitor o lo sgranamento dei retini colorati, che sono anch’essi dei punti. Tutto era già stato costruito nel famoso quadro di Seurat, dove la luce-colore viene dall’interno del quadro, attraverso la mescolanza ottica e il contrasto simultaneo (come aveva teorizzato Paul Signac). Ma nella costruzione della sensibilità ed esaltazione cromatica di Mendini non ci sono solo i puntinisti ma le avanguardie del futurismo (Boccioni, Balla, Depero) e dell’astrazione (Kandiskij, Itten e Klee) nonché l’interpretazione metafisica (e non) di Savinio, esaltata dalla creazione dei balocchi colorati che nell’isola della fantasia volano per davvero. Questo è stato anche il passaggio obbligato del Mac (Movimento arte concreta) che ha ancorato e legato l’arte al design sia in teoria (Gillo Dorfles) che in pratica (Bruno Munari).

Il Codice mendiniano che va sfogliato con precauzione e attenzione più del codice del Nome della Rosa, vuole essere disorientante nell’ubriacatura cromatica di un Arlecchino che cammina all’inverso – non da Bergamo a Venezia come è stato – ma da Bergamo a Milano, per trovare casa stabile al Piccolo Teatro di questa città con l’ultimo ed eterno arlecchino in Ferruccio Soleri. Ma qui potremmo realmente perderci se la guida di Fulvio Irace non ci riconducesse con una chiatta di salvataggio nel canale principale di un territorio indistinto che congiunge e separa l’architettura dalla pittura, dove si può costruire e abitare solo su tronchi d’albero conficcati nella palude. Ecco, il capitolo Progettare come dipingere che sta alla conclusione diventa la spiegazione del paradosso Mendini, che «disegna e designa» la sua unicità di produttore di opere uniche e moltiplicate allo stesso tempo. Il giro di parole, come nel proverbiale Cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro, si gioca più di tutto sulla metafora dell’inaspettato ma non dell’irreale. Vale a dire un’arte che «è muta e parlante, parla senza voce e parla solo se tu parli e tace se tu taci»: è l’Eco mendiniana. Per quanto riguarda poi la suggestiva quanto misteriosa anarchia cromatica di Mendini bisognerà attendere un nuovo Codice, ancora nascosto in soffitta della sua casa bifronte di Olda, nelle valli lì intorno dove è nato Arlecchino.

bruma@prometeo.com

M Brusatin è storico delle arti e architetto

Il codice Mendini raccontato da Fulvio Ierace: anche Corrado Levi commenta Il codice Mendini sul numero di settembre 2016.

Save

Save