Andrea De Benedetti: Lo stato di salute della nostra lingua

La situazione è grammatica

intervista ad Andrea De Benedetti  di Raffaella Ronchetta 

Qual è lo stato di salute della nostra lingua? L’utilizzo massiccio della comunicazione online, dei social network e delle tecnologie digitali la stanno trasformando e modificando? E questo lento e inesorabile  processo è davvero dannoso? L’abbiamo chiesto ad Andrea De Benedetti, linguista, giornalista, insegnante e traduttore, che di  lingua da tempo si occupa con scanzonata competenza. Ha pubblicato “Val più la pratica. Piccola grammatica immorale della lingua italiana”  (Laterza) e  “La situazione è grammatica” (Einaudi 2015) e sarà presente a “Italiano Corretto” un seminario  organizzato da STL Formazione e Doppioverso  che si terrà il 15 e 16 aprile a Pisa. Due giorni di incontri, dibattiti, approfondimenti rivolti a chi con la lingua lavora ma anche a semplici lettori e appassionati della materia.andrea_de_benedetti

Andrea De Benedetti, come e quando nasce La situazione è grammatica e, nel leggerlo, si intuisce che si sia divertito parecchio a scriverlo. È così?

Questo nuovo libro nasce come seguito naturale di Val più pratica. Lì cercavo di smontare alcuni stereotipi linguistici piuttosto diffusi, come il fatto che non si possa usare “e” o “ma” dopo i segni d’interpunzione”, che le ripetizioni siano sempre farina del diavolo o che l’analisi logica sia intrinsecamente formativa. Qui invece faccio una carrellata degli errori più diffusi in italiano, ribaltando la prospettiva con cui di solito li si osserva. L’idea che siano sempre e comunque sintomo di ignoranza, in sostanza, a me pare stucchevole e inconcludente. Preferisco spiegarmeli come il frutto di alcuni bachi del sistema grammaticale: solo così riesco a spiegare il fatto che, malgrado 13 anni di correzioni scolastiche, una fetta di italiani, anche colti, continui a commetterli. Quanto alla seconda domanda, la risposta è sì, mi sono divertito molto. E mi diverto ancora di più a osservare le reazioni di quelli (pochi, per fortuna) che si scandalizzano.

       Le regole grammaticali stanno via via morendo, per morte violenta o per oblio?

Non direi che le regole grammaticali stiano morendo. A differenza del lessico, la grammatica è un organismo che si muove con la lentezza con cui si spostano le placche tettoniche: quando moriremo la morfologia e la sintassi dell’italiano saranno sostanzialmente uguali a quelle che abbiamo conosciuto quando siamo nati. Poi, naturalmente, alcune regole sono un po’ più a rischio, in parte anche a causa dell’allargamento dell’elettorato linguistico prodotto dalla diffusione dei social network, ma si tratta comunque di una minima parte, che rientra per lo più nella casistica di cui parlavo prima, ovvero di regole che cambiano o cambieranno perché quelle precedenti, ancorché nobili, erano cervellotiche e incoerenti col sistema della lingua.

Come si fa a far passare ai ragazzi di oggi, quelli di facebook e wup, quelli dei cellulari, dei tablet, degli smartphone, che scrivere correttamente è come presentarsi per strada ordinati e puliti?

Per esempio spiegando loro, visto che ci tengono così tanto alla loro immagine, che nello stesso luogo virtuale – Facebook – dove trascorrono buona parte del tempo, ci sono sciacalli che aspettano i loro sfondoni grammaticali per esporli al pubblico ludibrio: se sapessero che in rete ci sono migliaia di persone che li prendono per i fondelli a loro insaputa, forse farebbero più attenzione.

Quanto della sua scrittura come corrispondente sportivo mette nei suoi libri? E forse anche nel suo parlare di grammatica, di lingua, di regole?

Non saprei. Se c’è qualcosa che accomuna tutte le mie esperienze di scrittura – come saggista e come cronista sportivo principalmente – forse è la necessità di trovare un punto di osservazione laterale sulle cose. Da un lato preserva dai rischi del fanatismo e dell’integralismo (penso al tifo calcistico, ma anche a quello per il purismo linguistico dei “neo-crusc”, che è come io chiamo i talebani più cruscanti della Crusca), dall’altro ti permette di evitare gli stereotipi, il manierismo, l’effetto dejá-vu. Non c’è nulla di più noioso che leggere qualcosa che suona come già letto. Che scriva di calcio o di grammatica, la mia prima preoccupazione è insomma farlo usando parole e immagini il più possibile inattese e non scontate. Non so se ci riesco sempre, ma l’obiettivo è quello.

Cosa fa fatica ad accettare negli errori linguistici  e cosa invece perdona con indulgenza?

Non perdono se a commettere errori sono gli adulti, maggiorenni, vaccinati e laureati – diciamo quella che una volta si chiamava “classe dirigente” – che di mestiere scrivono, parlano in pubblico e insegnano. Sono loro i “grandi elettori” nel parlamento della lingua, sono loro a orientare il gusto e a marcare le tendenze. Da questo punto di vista mi danno molto più fastidio gli anglicismi gratuiti o forme come il “piuttosto che” alla milanese (usato col valore di “oppure” e non di “anziché”) di quelli che fanno un uso aristocratico – e sbagliato – della lingua, piuttosto che (questo è l’uso corretto!) gli errori sottoproletari, come “se avrei” o cose simili. Perché gli errori sottoproletari hanno poche possibilità di contagio, quelli da ricchi purtroppo sì.

È di questi giorni la querelle su “petaloso” riconosciuto dall’ Accademia della Crusca come termine italiano,  usato, sfruttato e forse abusato in rete. Cosa ne pensa?

Mi sembra che quasi tutto quello che c’era da dire l’abbia detto l’Accademia della Crusca nella sua gentile risposta al bambino: “petaloso” è una parola ben formata dal punto di vista morfologico e trasparente dal punto di vista semantico, ma questo non è sufficiente, per ora, a garantire la sua adozione da parte dei vocabolari. Naturalmente c’è stato chi, senza alcuna cognizione di causa, ha colto l’occasione per intasare la rete di commenti sciocchi o addirittura per esigere dalla Crusca di sdoganare altre parole presuntamente più utili e belle di “petaloso”, come se fosse la Crusca, e non l’uso, a decidere quali sono le parole che meritano di essere inserite nei dizionari. Ma questo è l’inevitabile fall-out di tutte le “bombe” social, che una volta esplose lasciano dietro di sé scie di commenti tossici che avvelenano la Rete e confondono i contorni delle cose fino a rendere indistinguibile ciò di cui si stava parlando. Di mio aggiungerei solo un’osservazione, ed è che nel breve volgere di qualche giorno, “petaloso” è entrato nell’uso non metalinguistico non nella sua accezione propria ma col significato figurato di “tenero”, “carino”, “simpatico”, il che mi fa pensare che, anche una volta svanito l’effetto virale immediato, potrà effettivamente avere un futuro nel nostro lessico.

    Che consiglio darebbe a un giovane che voglia fare della scrittura il proprio mestiere?

 Premesso che non consiglierei a nessuno di fare della scrittura il proprio mestiere, più che altro perché si guadagna pochissimo, gli consiglierei prima di tutto di leggere, di formarsi un gusto, di provare a imitare dei modelli. Poi a un certo punto, come chi impara ad andare in bicicletta col papà che lo regge dal sellino, scoprirà forse di riuscire a pedalare da solo.