Igiaba Scego: Siamo tutti disgregati

L’italiano lingua di Petrarca e Celentano

Intervista a Igiaba Scego di Camilla Valletti

dal numero di gennaio 2016

Somala di nascita, italiana d’adozione, musulmana praticante, Igiaba Scego è da molti anni impegnata in una profonda riflessione sulla multiculturalità e sulla difficoltà di proporre una scrittura che conservi la matrice del paese originario ma sappia declinarsi in quella che viene definita “lingua d’arrivo”. In particolare, la sua voce si è levata forte a condannare chi confonde i terroristi con le persone di fede islamica il 14 novembre scorso, subito dopo gli attentati di Parigi. Anzi, in estrema sintesi, ha saputo identificare il problema nella deriva delle generalizzazioni. In un articolo pubblicato da “Internazionale” intitolato Non permettiamo ai terroristi di farci vivere a metà affermava: “non è la partita di calcio a cui i populisti vorrebbero ridurre la faccenda. Non è musulmani cattivi contro il resto del mondo buono. Siamo davanti a persone pericolose che hanno un piano preciso, un piano di guerra, e sono contro tutti. Sono (…) contro i musulmani che considerano ‘finti’ perché non violenti come loro e quindi più infedeli degli infedeli. Sono contro gli altri perché rei di non partecipare alla loro ideologia di morte”.

La letteratura postcoloniale italiana, o migrante, può ancora dirsi letteratura di nicchia, emergente? È ormai parte consolidata e accettata della produzione letteraria italiana? Quali sono ancora gli ostacoli in tal senso?

Bella domanda. È tutto un problema di etichetta, da anni la nostra letteratura è definita migrante causando molti problemi agli autori. Moltissimi di loro sono scrittori e scrittrici oramai a tutti gli effetti. L’etichetta ha fatto loro bene ma anche piuttosto male. Ha permesso a molte persone di emergere, specialmente negli anni duemila quando la letteratura cosidetta migrante andava di moda. Poi però è diventata una gabbia, esattamente come è successo alla letteratura femminile, al fantasy o all’epic novel. Penso che la letteratura italiana abbia dei problemi, un ritegno quasi, a vedersi come letteratura multiculturale. Ci sono delle barriere, secondo me, gli editori specialmente non fanno più scouting. Considerano persone come me come delle novità: ciclicamente veniamo considerati delle scoperte. A noi piacerebbe invece vedere più novità vere. Bisogna creare i luoghi dello scouting. Bisogna riaprire degli spazi perché sia possibile un confronto per permettere ad altre voci oltre la nostra di farsi ascoltare, leggere, per far crescere nuovi scrittori. Noi abbiamo un soggettività molto diversa rispetto al mainstream italiano.

La questione della lingua è molto forte nel suo ultimo romanzo (Adua, cfr. “L’Indice” 2015, n. 11). Lei usa l’italiano almeno a tre livelli: Zoppe è un traduttore, il padre di Zoppe ha studiato sui testi letterari e Adua è più vicina all’oralità. Pensa che l’italiano, come lingua viva, possa trasformarsi grazie anche all’innesto delle lingue dei migranti?

Il mio è un caso particolare, l’italiano infatti è arrivato subito. Sono nata in Italia da genitori somali. È stata una lingua scritta per eccellenza. Il somalo scritto è nato soltanto negli anni settanta (quello orale invece è antichissimo) e non ha una sua produzione letteraria. Attraverso l’italiano ho conosciuto le altre letterature. Il mio caso è molto complicato. La Somalia ha avuto legami coloniali e postcoloniali con l’Italia. Le persone erano scolarizzate in italiano. Solo dopo gli anni settanta la scolarizzazione è avvenuta in lingua nazionale. Ma la comunicazione scritta è sempre stata in italiano. Ecco perché nel mio lavoro si rispecchia questo processo. Zoppe è un interprete, il suo legame con la lingua è un legame controverso, è un tradurre/tradire. Adua ha vissuto la transizione dalla lingua italiana al somalo, lei ha dunque un rapporto con l’italiano solo in forma scritta che poi ritrova quando arriva in Italia. È un italiano che lavora in lei come forma di retaggio. Dopo la guerra civile, in Somalia l’italiano non si parla più, si parlano l’inglese e l’arabo. Ho voluto dare credibilità alla lingua dei miei personaggi. Cambio registro da quello mitologico del padre di Zoppe, a Zoppe che è attentissimo alla forma, fino a Adua che quasi mutua il dialetto romano. Era questo humus di lingue che volevo creare e credo possa essere fertile anche rispetto all’italiano. L’italiano deve aprirsi anche a nuove espressioni, è importante che non resti ancorato al suo canone.

Lei si batte con forza contro tutte le generalizzazioni. Titanic, il marito di Adua che arriva in Italia dopo di lei, porta con sé un profondo conflitto, è la dimostrazione che le comunità non sono compatte come invece sono viste da fuori?

Tutte le comunità migranti – la parola comunità è complicata ma la uso anch’io a volte – sono disgregate, gli eritrei sono diversi dai somali, gli statunitensi diversi dai brasiliani. Allo stesso modo “musulmano” non vuol dire nulla. Ci sono musulmani di origine araba e musulmani di origine afroasiatica. Io sono musulmana ma la mia scelta religiosa non mi colloca d’ufficio in nessun tipo di comunità. È chi ci vede da fuori che tende a fare di tutta l’erba un fascio perché è più facile. Ma questo alimenta le incomprensioni. Io invece ho voluto cercare di mostrare come anche tra due somali di diverse generazioni ci siano differenze incommensurabili. È questo che i media non vogliono vedere, schiacciando realtà diverse sotto la stessa definizione.

Roma è la sua città ed è anche la città agognata da Adua. Come vede Roma in questo tragico frangente di malaffare e cattiva gestione?

Io amo moltissimo Roma ma a volte è davvero invivibile. La periferia dove vivo io è stata letteralmente abbandonata. Qui sotto c’era un cinema che ha chiuso, l’unico della zona, dicono che riaprirà ma sono anni che non succede nulla. Roma spesso non accoglie, anzi mette all’angolo i più poveri. Diventano massa indistinta. Adua arriva con il suo sogno di fare l’attrice ma poi finisce per essere usata, abusata, ingaggiata in un film porno soft e poi del tutto dimenticata. C’è troppa concorrenza, nessuna cura per l’individuo, pochi spazi dove trovare rifugio per provare a radicarsi. Certo è vero che ogni volta che esco mi pare di scoprire angoli nuovi di bellezza, e forse questa bellezza può salvarci. Però Roma è una città che è stata offesa soprattutto dalla corruzione, e non mi sembra che al momento ci siano dei segnali di reale ripresa. Ma io la amo e spero per lei il meglio.

Subito dopo i fatti di sangue di Parigi, lei ha scritto un bellissimo articolo per il sito di “Internazionale” in cui ammoniva a essere responsabili e a leggere una mappa. Che cosa intendeva?

Il principio di responsabilità è quello che ci deve guidare in questi giorni in cui tutti i media puntano solo alla spettacolarizzazione, all’enfasi. Bisogna invece fermarsi, pensare, e non farsi cogliere dai sentimenti più bassi. Ci vuole una mappa, ci vuole una conoscenza approfondita che ci orienti. Prima di Parigi nessuno sapeva nemmeno come si chiamassero le basi siriane dell’Isis. Quello che ci serve per davvero è una carta che permetta di vedere quale paese confina con un altro, e perché gli equilibri siano stati completamenti distrutti dal passato coloniale e dalle guerre occidentali. Questo mi auguro che si veda in profondità, quello che è accaduto non è un fungo nato per caso. Inoltre i nostri media sono colpevoli perché alimentano l’idea del cosiddetto scontro di civiltà, come se il problema fosse legato al fatto che non mangiare il maiale offende la tua identità religiosa e culturale. Ma scherziamo? Ci facciamo distrarre da questioni che dovrebbero essere considerate irrilevanti rispetto alle vere urgenze come il cambiamento climatico. è su questi temi che si gioca il futuro del pianeta, e invece non ci preoccupiamo affatto del luogo dove viviamo. Per questo, io credo, dovremmo agire per fare qualche cosa che politicamente ci unisca a fronte dei gravi processi ambientali che distruggono la terra.