Intervista a Nicola Lagioia: “Non parto mai per un’avventura senza Dylan”

Da Faulkner alle serie TV passando per il Salone del Libro

intervista a Nicola Lagioia di Orazio Labbate

Che cos’è, secondo te, la letteratura?

È l’arte di raccontare storie attraverso la scrittura.

Ne La ferocia (Premio Strega 2015 e Premio Mondello 2015), le opere di William Faulkner si insinuano (e si inseriscono) attraverso la lingua letteraria e impetuosa che adoperi in modo originale e solo tuo; così come nell’ampia e articolata struttura narrativa che costruisci, la quale fa del concetto di saga familiare il suo scheletro immenso entro cui si diffonde l’epica del libro. Com’è nato La ferocia?

L’ho già raccontato diverse volte. È nato da un incubo che ho fatto una notte d’estate, a Castellaneta Marina, mentre dormivo accanto a mia moglie. Mi sono svegliato sul far dell’alba con l’immagine di questa ragazza insanguinata ancora negli occhi – per meglio dire nello sguardo interiore, visto che si trattava di un sogno. Nei mesi successivi l’immagine ha continuato a restarmi nella testa, a farmi visita. Non proprio un’ossessione, ma una compagnia costante, come quella di certi fantasmi domestici piuttosto benigni, nonostante la ragazza continuasse poverina ad agonizzare, a camminare nuda e insanguinata sulla Statale 100. Ho confessato a mia moglie l’esistenza di questa presenza tra me e lei, ma mia moglie sapeva benissimo di cosa stessi parlando. Quella ragazza, in un certo senso, apparteneva anche a lei. “E Clara?”, mi disse una domenica pomeriggio. Iniziammo a chiamarla così, Clara. Era diventato un po’ il nostro gioco. Poi su di lei, ho voluto saperne di più. L’unico modo per farlo, almeno per me, era scriverci intorno un romanzo. Un romanzo che ruota intorno a un’assenza, ecco cos’è in fondo La ferocia.

Che cosa significa per te William Faulkner e che cosa rappresenta nella tua idea di scrittura?

William Faulkner è il grande poeta epico del Sud. Tutti siamo voluti essere dei suoi allievi, e tutti ci siamo illusi di aver imparato qualcosa da lui. García Márquez, Malcolm Lowry, Mo Yan e tanti altri non avrebbero scoperto i propri stessi mondi d’appartenenza se William Faulkner non avesse sfondato per tutti una ben determinata porta. Il suo speculare non è James Joyce, come si crede, ma Franz Kafka, che è il grande scrittore del Nord almeno quanto Faulkner agita lo scettro (che a seconda dei momenti è un bastone pastorale o una bottiglia di gin) sull’altra parte del mondo.

Quali sono stati i classici che ti hanno iniziato?

Peter Pan di Barrie, i Racconti di Oscar Wilde, La divina commedia, L’uomo Ragno di Lee e Kirby, la Wasteland di Eliot, Delitto e castigo. Questa è stata la mia iniziazione.

Parlami del tuo metodo di scrittura.

Scrivere e riscrivere. Buttare e ricominciare daccapo. Scusarmi con l’editore. Per anni.

Qual è il luogo fisico presso cui dedichi la tua attività di scrittore?

Mi basta una stanza. Una stanza in cui ci sia solo io, però.

Non soltanto William Faulkner: quali altri autori statunitensi consideri fondamentali per il tuo nutrimento autoriale? E, riguardo a ciascuno di questi, che suggerimento letterario ti è stato concesso (dalla lingua, sino all’immaginario)?

Ho molto amato il Nabokov di Lolita. Pound ed Eliot, da giovanissimo, letti con una passione assoluta. Francis Scott Fitzgerald, per il romanticismo e per il disastro. E Bob Dylan. Blood on the Tracks e Highway 61 furono una rivelazione. Non parto mai per un’avventura senza Dylan. Con il Salone del Libro mi ha molto aiutato: quando c’era da fare muro contro muro con qualche interlocutore, lo mettevo in cuffia mezz’ora prima, ed ero pronto a giocarmi il tutto per tutto.

Negli ultimi anni la letteratura horror (ampiamente intesa) sta ottenendo in Italia una considerazione definibile apertamente di “riconoscimento letterario”: dai romanzi di Stephen King ai lavori di Thomas Ligotti, ma anche la ripubblicazione delle opere di Arthur Machen. Secondo te da cosa scaturisce questa nuovissima e meritata dignità?

Dal fatto che l’horror è la regione oscura della Repubblica del Fantastico. Da Omero a Ovidio a Ariosto a Shakespeare a Dickens a Barrie a Stevenson… il fantastico è una parte fondamentale della nostra mappa interiore.

Le serie Tv sono ormai una valida e riconosciuta “narrazione visiva”, sono opere letterarie sul piccolo schermo. Le immagini, gli scenari, i dialoghi filosofici, i personaggi: ogni elemento è curato nel dettaglio. Citandone alcune: True Detective (HBO), Six Feet Under (HBO), Twin Peaks (Showtime). Qual è la tua preferita, verso la quale riconosci un debito immaginifico?

Non sono un accanito frequentatore delle serie tv, anche se ogni anno me ne guardo tre o quattro, di solito fino alla seconda o alla terza stagione. Poi mi stanco. In tutti questi anni, mi è capitato di vedere solo due serie tv in grado di darmi il brivido e la vertigine dell’arte narrativa: Twin Peaks e The Kingdom. Il resto è cultura, è ottimo intrattenimento intelligente.

L’ultima edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino, di cui ricopri il ruolo di direttore, è stata un grande successo perché, a mio avviso, ha realizzato un avvincente e minuzioso lavoro su tutte le arti, e non solo verso la scrittura. Gli eventi, i visitatori, le presentazioni, l’estetica stessa degli interni del Salone, l’entusiasmo palpitante delle realtà editoriali presenti, la passione per le serie tv (Twin Peaks). Tutto questo s’avvertiva meravigliosamente, quale coeso e unitario. Come avete lavorato per arrivare a questo splendido risultato?

Lavorando come una Factory. Con libertà, sfrontatezza, gusto per l’avventura, senso dell’azzardo, spirito di gruppo, come se non ci fosse un domani, e dunque con un coraggio che nemmeno da adolescenti inquieti.

Che cosa suggerisci a chi vuole approcciarsi alla scrittura? Come deve comportarsi?

Non riesco a dare consigli.

Stai lavorando a un nuovo romanzo?

Sto scrivendo, come sempre.

Ultima domanda faulkneriana: Luce d’agosto oppure L’urlo e il furore?

“Dallo steccato, tra i buchi dei fiori arricciati, li vedevo giocare.”

olabbate@gmail.com

O Labbate è scrittore