Javier Cercas: Scrivo per togliere l’ultima maschera

Javier Cercas e L’impostore

di Norbert Czarny

dal numero di dicembre 2015 

Partiamo dal contenuto della prima parte del suo romanzo (L’impostore, Libro del mese del numero di dicembre 2015), cioè dal suo rifiuto di scrivere su Marco. Lei vive allora una sorta di crisi, e non ha voglia di scrivere testi di finzione. E tanto meno di scrivere su quell’uomo “maledetto”. Che cosa l’ha indotta a decidere diversamente?

Io scrivo quando qualcosa mi pone un interrogativo. Il libro che scrivo deve formulare una risposta a quell’interrogativo, nel modo più complesso possibile, preservando l’ambiguità e l’ironia proprie del romanzo. Agli inizi non avevo il coraggio di rispondere alla domanda che questa storia mi poneva. La gestazione è stata lunga: ho portato dentro di me questa storia per otto o nove anni. Ma il parto è stato rapido.

Qual era la domanda che lei si poneva?

In primo luogo, perché un uomo mente. Presentando i fatti, io lascio che sia il lettore a decidere in proposito. La mia risposta è che Marco ha agito per essere accettato, amato, ammirato. Ma violando tutte le regole, e anzitutto quella della verità. E poi, perché tutti gli hanno creduto? Quando è esploso lo scandalo, Marco è stato demonizzato. Ma la società spagnola aveva la sua parte di responsabilità. E anche la nostra società mediatica. Tutti gli hanno creduto perché raccontava quello che tutti volevano sentirsi raccontare: del passato più oscuro, lui ci ha fornito una versione edulcorata, tranquilla, senza quelle che Primo Levi chiama “le zone grigie”. È una versione kitsch. I deportati non volevano parlare, o quel che dicevano era giudicato poco interessante. Lui, Marco, sapeva raccontare, mettere in scena.

Lei parla dello statuto del testimone e della sacralizzazione della vittima.

Uso perfino l’espressione “ricatto del testimone”. La memoria è fallibile, insufficiente. Esige che la testimonianza sia controllata, confrontata con documenti. In seguito, si tendono a confondere la vittima e l’eroe. La vittima ha diritto al nostro appoggio, al nostro aiuto, ma questo non fa di lei un eroe, come dimostra benissimo Imre Kertész in Essere senza destino. L’eroe dice di no. Kertész viene arrestato in un rastrellamento a Budapest e deportato. È una vittima. Diventando testimone, vittima ed eroe, Enric Marco diventa intoccabile. Ma non diffonde la verità. Soltanto il kitsch della verità. Mi chiedevo anche perché tutto questo mi turbasse così profondamente. Quell’uomo è un mostro… e noi anche. “De te fabula narratur”, scrive Orazio: “Questa storia è la tua”. Il lettore è un impostore. Tutti si raccontano storie, si inventano una vita. Ma lui vive la storia e vìola le regole. È un’iperbole, come gli eroi di Shakespeare. E se noi ci riconosciamo in loro, è perché abbiamo qualche cosa in comune con loro. Non credo che la letteratura sia un divertissement. Deve servire a smascherare il reale ed è così che ci rende più forti. È pericolosa perché la conoscenza è un rischio. Io scrivo per togliere tutte le maschere, fino all’ultima. Ignoro se ce ne sia una che sia l’ultima.

Più avanti nel romanzo emerge la sua paura di “venire a patti col diavolo” durante il lavoro di scrittura. Lei accosta L’impostore a L’avversario di Emmanuel Carrère e a A sangue freddo di Truman Capote. Con quel libro Truman Capote si è distrutto.

La mia paura dipendeva dalle ragioni che ha citato parlando di Capote. Lui si è corrotto… Per continuare la lettura occorre essere abbonati  – Scopri le nostre offerte