La “piazza dei libri” di Catania

Voglia di resistere nel grande monopoli della città

di Alfredo Nicotra

dal numero di aprile 2015

piazza_dei_libri“I primi tempi i picciriddi ci tiravano le pietre quando ci vedevano. Ora vengono, e se non aprono un libro, si mettono a giocare sulla piazza”. Manola ha grandi occhi neri e lascia fuggire una risata dal fondo mentre dal bancone improvvisato in un angolo della libreria mi sta allungando una birra spillata. Mi parla dei giorni in cui lei e i ragazzi dell’associazione Gammazita (circolo Arci istituito nel 2012) hanno avuto l’idea di riprendersi un pezzo di città lasciato a marcire nel degrado e nel silenzio complice di traffici al limite della liceità. Per restituirlo ai legittimi proprietari, i bambini. Pochi metri quadrati adiacenti al rinomato castello Ursino, tra le viscere del ben più famigerato quartiere San Cristoforo di Catania, la piazza Federico di Svevia (uno slargo sopra cui torreggia donrodrighescamente una delle fortificazioni sparse dall’imperatore per la Sicilia) per molti anni conosciuta come uno degli infiniti parcheggi abusivi della città: “La nostra intenzione è stata di eliminare le auto dalla piazza, e non solo quelle, per renderla fruibile ai bambini. Dando loro l’opportunità di crescere e di giocare in maniera più sana, in un contesto che altrimenti non lo consentirebbe”. E di “sensibilizzare gli abitanti a un uso comunitario degli spazi”. È nato così, lo scorso dicembre, il progetto della “Piazza dei libri”. Uno spazio liberato che ogni giorno si trasforma in una libreria-emeroteca all’aperto. Un esempio di arredo urbano che unisce le pratiche della lettura e del consumo critico alla reinterpretazione dei luoghi senza snaturarne la storia. Un modello di riappropriazione dal basso in un milieu violento e sfibrato, dove l’assenza delle istituzioni è palpabile come il fumo che si alza dai bracieri allestiti dalle macellerie e dalle putìe in ogni angolo della città, come a segnalare che in certe zone il confine tra legalità e illegalità è sottile e facilmente frangibile.

piazza_dei_libri_bisMentre bevo un sorso, tra le sedute ricavate dagli oggetti di riuso, le cassepanche di legno recuperate fortunosamente, le sedie e i tavolini vintage riesumati da qualche bar in stile anni ottanta, osservo i duemila titoli raccolti in pochi mesi attraverso il tamtam delle donazioni. Opere di narrativa, di poesia e di saggistica in tutte le edizioni, catalogate e lasciate in balìa dei lettori e degli avventori della piazza: donne e mamme con le buste della spesa, anziani forse diffidenti, giovani a rischio, bambini vocianti che girano sulle bici, ma anche extracomunitari e turisti stranieri che già dalla mattina sono giunti per visitare il museo vicino. I libri sono disposti dentro l’area della piazza, lasciati come doni dentro cassette e ceste della frutta colorate, in attesa che le mani si protendano per raccoglierli e sfogliarli alla luce del sole, adagiati dentro queste scatole colorate dalla tenacia delle volontarie e dei volontari dell’associazione, rosse come fiamme o verdi e azzurre come il cielo sopra le teste, e spiccano come uno sgarro sul grigio del cemento e lo scuro della pietra lavica. Ce ne sono a decine: “Una delle risorse che abbiamo e ci ha aiutato a immaginare e rendere funzionale il progetto è quella di avere il sole e queste belle giornate quasi tutto l’anno… Anche se di brutte giornate ce ne sono state”. Sarà la birra, ma credo di cogliere una sottile ambiguità nella sua frase: “L’importante è fare in modo che i libri incontrino i lettori. Spesso gli abitanti di questi quartieri mettono i piedi in una libreria con lo stesso rispetto sacrale e devozionale con cui varcherebbero il portone di una cattedrale. Noi invece glieli facciamo trovare come se fossero al mercato. E poi in molte di queste case a mancare sono proprio i libri”.

Il progetto della libreria urbana fu abbozzato in segreto, in una notte: “Riempiendo di fioriere grandi e pesanti i bordi della piazza e ancorandole attorno come a perimetrarla, così da non permettere più l’abuso delle auto. Poi abbiamo aggiunto i tavoli e le sedute, e per rendere l’azione permanente abbiamo pensato ai libri… a fare la biblioteca all’aperto”. L’indomani neanche una macchina poté posteggiare tra lo scorno dei parcheggiatori. La scelta dei libri è stata una tattica. Da un giorno all’altro spuntati come barricate. Parlare di libri e di lettura in questa città essenzialmente significa questo. In una città con una percentuale irrisoria di lettori, come riportano le ultime stime nazionali, i libri sembrano soldati di una guerra non dichiarata. Assolvono una funzione simbolica e culturale prima che commerciale, contro la violenza e la nullificazione del tessuto urbano e sociale. Le poche biblioteche comunali versano in una condizione di straniamento. Parlare di libri e di lettori a Catania vuol dire essenzialmente immaginarli. Preparare dei lettori a venire. La piazza è stata inaugurata anche con il patrocinio e il modesto contributo del Comune. Quattro giorni di festa. Presentazioni, mostre, dibattiti e un concerto di chiusura offerto da Eugenio Finardi. Le donazioni che arrivano da tutta Italia. Tra queste, il collettivo Wu Ming ha regalato scatoloni pieni libri. Oltre alla libreria sulla strada, un bookshop all’interno dei locali, riviste, quotidiani e il wifi libero. Adesso una domenica al mese si fanno le presentazioni con gli autori, i dibattiti, i concerti. Si può pranzare o prendere un caffè. Si fanno anche dei corsi, di danza popolare, di musica e di giocoleria e di lingue, arabo e spagnolo. Tutto a costi contenuti, se non offerto.

mangiacartePer parlare di libri a Catania servono innanzitutto lettori, in una delle province con il più alto tasso di abbandono scolastico e numero di minori carcerati. È per questo che altre iniziative si stanno diffondendo lungo il periplo dei quartieri popolari e delle periferie che circondano il salotto buono della città. A Librino, enclave di palazzoni nel deserto, la Librineria, poi la libreria dell’associazione Gapa-Scidà, ancora più nello scuro di San Cristoforo, finanziata dall’ex presidente del tribunale dei minori Giovanbattista Scidà. Una biblioteca popolare e centro di documentazione sul disagio giovanile, la microcriminalità, le mafie e le pratiche dell’antimafia sociale. Infine, la Libreria sociale Mangiacarte, tra la Civita e la via delle Finanze, tra i resti dell’ex quartiere a luci rosse. Una rete di librerie e biblioteche popolari che comunicano tra loro, si scambiano i libri e cercano di creare nuovi lettori, soprattutto giovani. Una “libreria diffusa”, la chiama Manola, che vorrebbe insinuarsi come un farmaco nei gangli di questo corpo malato, dove a parte le biblioteche regionali e universitarie frequentate dagli studenti, non esistono spazi destinati al pubblico. A Catania solo negli ultimi anni sono scomparse cinque librerie, due di esse erano storiche, le altre installazioni temporanee. In ogni caso tutte hanno avuto una serrata a causa della crisi e di un’emorragia di lettori che sta dissanguando il centro storico, ritenuto finora immune perché legato indissolubilmente alla tradizione letteraria della città. Qui i libri hanno abitato da sempre le case della borghesia illuminata, cittadina e siciliana. Adesso però si paga il prezzo di una classe intellettuale imbrogliata nei propri paramenti, protagonista unica di eventi culturali a cui non smette di autoinvitarsi e autocelebrarsi. Niente che possa esondare dalla quiete dei teatri e dei salotti per incontrarsi con la società reale e scuoterla. Contigua ad ambienti universitari, che non hanno mai scucito un’idea o elaborato una bozza di programma da dedicare alla promozione della lettura.

Gli ultimi lettori si spostano verso le librerie di catena dove ad attenderli ci saranno delle vetrine sempre più simili a una macroperformance di arte pop. Copertine di libri uguali riprodotte in serie in tutta la nazione. Che “i bambini sono i nostri migliori lettori”, me lo spiega Angelica, una delle due giovani sorelle che hanno aperto una piccola libreria nel quadrilatero tra la via Etnea e il corso Italia, tra i palazzi nobiliari e i monumenti religiosi. Le altre librerie a quest’ora sono già chiuse perché è sera. A lei e Maria Carmela l’idea è “venuta come un dono”, un giorno del 2011, quando un loro amico decise di cedere l’attività. “Un’idea romantica” in una strada che ha scommesso soltanto su una vocazione enogastronomica di qualità anche se a costi accessibili. La libreria Vicolo Stretto, anche nel nome, ricorda una genuina voglia di resistere e di vivere in controtendenza nel grande monopoli che è questa città. “La libreria deve essere un luogo condiviso e partecipato”. “Io la intendo come un servizio, non vendo solo una merce. I libri sono oggetti che stanno dove li metti, ma poi devi essere tu a cucire attorno una sensazione, un’emozione, un valore. Dei significati ulteriori che li rendano di nuovo veicolo di scambio di idee”. Così hanno deciso farla somigliare a una libreria di casa con una forte impronta personale, per spingere il lettore a curiosare tra gli scaffali. E i lettori vengono anche per l’ambiente che si respira all’interno dei suoi spazi. A differenza delle altre librerie, finora questa scelta sembra premiarle: “Con il tempo c’è stata una progressione di amici che sono arrivati, che ci hanno scoperto, e insieme a noi hanno scoperto i libri e gli autori nuovi”. Sugli scaffali molti titoli di editori indipendenti e di editoria di progetto. “Abbiamo letture e gusti diversi per cui ci compensiamo. E chi viene per un libro quando ne suggeriamo altri è contento di tornare”. Ma “ai bimbi ci dedichiamo maggiormente perché manca una libreria per l’infanzia. Selezioniamo i libri con carta ecologica, senza componenti chimici”. Mi parla con entusiasmo di un “nuovo sentimento per i libri” che di recente si sta diffondendo. “È come una moda, adesso parlare dei libri è diventato bello”. Non saprei dire che parte della città stia vivendo questo cambiamento. Ma se ci saranno ancora i libri in futuro, “sarà anche merito dei librai indipendenti”.

alfredonicotra@tiscali.it

A Nicotra è critico letterario

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