Will Hermes – New York 1973-1977 Cinque anni che hanno rivoluzionato la musica

Geografia e storia della popular music

recensone di Luca Bianco 

dal numero di dicembre 2014

Will Hermes 
NEW YORK 1973-1977 
Cinque anni che hanno rivoluzionato la musica
ed. orig. 2011, trad. dall’inglese di Michele Piumini
pp. 392, € 23
Codice, Torino 2014                                                                         

Will Hermes - New YorkUno dei vezzi della critica rock è quello di inventarsi, più o meno per ogni nuova band di qualche rilievo, una “scena cittadina”, composta di carneadi, detriti o satelliti dei gruppi più fortunati, e qualche volta di geniali outsiders che dal successo dei concittadini guadagnavano un quarto d’ora di celebrità o almeno di visibilità. New York 1973-1977 di Will Hermes si ricollega parzialmente a questa tradizione, e al contempo la rivolta come un guanto. Ma certo New York non è una città qualsiasi: non è, per dire, la Liverpool dei Beatles (e in orbita intorno a loro i tanti complessi ­Merseybeat). Né sono anni qualsiasi quelli su cui il libro si concentra: nella Grande Mela, tra il 1973 e il 1977, è successo tutto e il contrario di tutto.
L’aspetto straordinario di questo libro, inaspettatamente e felicemente tradotto da Codice, graditissima variatio tra tanti meritevoli titoli di ricerca e divulgazione scientifica, è che quell’irripetibile cronotopo, quella caleidoscopica mistura di stili musicali, stili di vita e luoghi rivive nelle sue quattrocento pagine anno dopo anno, mese dopo mese, sul filo di una meticolosa geografia scandita sulle fermate del metrò, le etnie dei diversi quartieri, le meravigliose impollinazioni incrociate, le coincidenze ben più che significative: per dirla con una frase di Hermes che non può non dare i brividi a chi ama la musica: “Quello stesso weekend Charles Mingus suonò al Bottom Line e gli esordienti Talking Heads si esibirono al Cbgb insieme ai Ramones”.

Per il lettore italiano è senz’altro la musica rock, nelle sue più diverse declinazioni, a costituire il filo che si segue meglio. Dopo tutto sono gli anni dei citati New York Dolls, dei Suicide, ma anche e soprattutto di Patti Smith, di Lou Reed, dei Ramones, degli intelligentissimi Talking Heads e dei lirici Television; e anche di Bruce Springsteen, che il libro segue dagli inizi cantautoriali tra Dylan e Van Morrison al trionfo mondiale di Born to Run; e quando, in una tournée di anni recenti, Springsteen si sedeva all’organo per riproporre una sua cover (deboluccia, a dir la verità) di Dream Baby Dream dei Suicide, un duo di rock viscerale ed elettronica estrema, come un Elvis Presley mutante in un paesaggio sonoro filmato dal primo David Lynch, molti fans hanno storto il naso; ma in realtà Springsteen e il cantante dei Suicide Alan Vega avevano respirato la stessa aria, suonato negli stessi locali, bevuto la stessa birra; e, come sintetizza Hermes, “malgrado le evidenti differenze estetiche, Vega attingeva alla stessa romantica mitologia autostradal-sessual-suburbana di Springsteen: semplicemente la declinava in modo diverso”.

Quella scena, e molti dei nomi che ho citato, hanno anche creato una vera e propria mitologia spicciola fatta di trasgressioni sessuali e abusi di droghe di ogni tipo, soprattutto pesanti: un buon compendio può essere ad esempio il deludente Please Kill Me. Il punk nelle parole dei suoi protagonisti di Legs McNeil e Gilliam McCain (Baldini Castoldi Dalai, 2006): perfetto se volete sapere chi erano gli spacciatori di Iggy Pop o con chi andava a letto Dee Dee Ramone, ma del tutto inutile appena ci si chiede come facesse, da tutte quelle teste marce e quegli aghi in vena, a nascere una musica così meravigliosa. Hermes per fortuna evita le morbosità e lo scandalismo e si concentra invece sulle reciproche influenze, sulle radici comuni dei musicisti, sulle loro innovazioni tecniche.

Ma, come si diceva, se dal CBGB o dal Bottom Line ci si sposta nei quartieri latinoamericani, la musica cambia, eccome se cambia: la storia di come la salsa sia passata dalle sale per matrimoni del barrio allo Wembley Stadium è una delle più appassionanti tra quelle raccontate nel libro, e s’intreccia alle biografie dei suoi protagonisti quali Hector Lavoe e Willie Colòn, che conducono una vita non meno spericolata di quella di tanti rockers (un esempio: sulla copertina dell’album Cosa Nuestra vediamo Colòn in procinto di sbarazzarsi di un cadavere gettandolo nell’Hudson). Anche se noi italiani, per farci un’idea della musica, dovremo ricorrere frequentemente a Youtube e ai vari siti di download. Questa, detto per inciso, è una pratica che Hermes contempla e incoraggia nella dovuta misura. Non stiamo parlando di un fanatico terminale del vinile, né di un completista che dei suoi beniamini vorrebbe ascoltare anche i primi vagiti: ma le riprese dei Talking Heads poco più che adolescenti che nel 1975 intonano sul palco del Cbgb una versione grezza del loro inno Psycho Killer sono davvero una di quelle gemme per cui dobbiamo essere grati a Youtube (e a Hermes che ce la segnala).

E la musica cambia ancora e ancora se seguiamo Hermes nei loft dei jazzisti afroamericani che sperimentavano vie intermedie tra la fusion e il free jazz: chi scrive era rimasto folgorato anni fa da una performance torinese del sassofonista David Murray nel gruppo del bassista Henry Grimes; lo ritrova tra queste pagine, l’ultimo giorno del 1977, in un concerto insieme a Lester Bowie che Hermes descrive brano dopo brano con una prosa misurata ma evocativa, fino all’ultimo pezzo, che si intitola con una frase che potrebbe riassumere l’intero libro: Let the Music take You. Altrettando appassionante è l’altra e più fortunata storia afroamericana: quella del funk, della disco e poi del rap. Soprattutto del rap: sono davvero belle le pagine in cui Hermes descrive le prime jam di ragazzini armati di giradischi e qualche rima che ingaggiano tra loro vere e proprie battaglie.

Ma la New York musicale, pur essendo un ecosistema perfettamente autosufficiente ad alto tasso di biodiversità, è anche pronta alle più diverse impollinazioni: dopotutto era anche allora una delle mete più ambite di qualsiasi tournée. Sono belle le pagine dedicate ai concerti di Bob Marley and the Wailers nel 1973: il  primo impatto degli americani con la musica giamaicana, capace di lasciare a bocca aperta Patti Smith (che se ne ricorderà nella canzone Redondo Beach dal suo primo album), ma forse anche Tom Verlaine e Richard Lloyd dei Television, le due chitarre più terse della storia del rock, che trasformeranno una cadenza reggae nella visionaria psichedelia urbana di Marquee Moon; così come la tournée dei Kraftwerk, algidi giganti dell’elettronica tedesca prontamente inseriti nelle scalette dei club disco e poi cannibalizzati dal rapper Afrika Bambaataa in uno dei più bizzarri ed efficaci connubi della popular music.

Molto resterebbe da dire su questo libro, tanti sono i musicisti che incontriamo, ma ciò che davvero lo rende unico è il modo in cui la storia della musica (delle musiche) si intreccia con la storia della città, con la sua urbanistica, con le decisioni dei suoi sindaci e le geometrie dei piani regolatori, e con la vita dei suoi monumenti. La più bella storia che Hermes ci racconta non parla di musica: è quella del giocattolaio George Willig, che dopo un anno di meticolosa preparazione si arrampica sul World Trade Center. Raggiunta la cima viene immediatamente arrestato; verrà multato dal sindaco Beame in ragione di un centesimo ogni piano scalato: il totale ammonta a un dollaro e dieci centesimi. Il giornale di sinistra “Village Voice”, nella sua cronaca dell’evento descrive le Due Torri come “il simbolo rapace dell’ingordigia e del potere dei ricchi”. È il 26 maggio 1977. Quella New York è un continente perduto, come Atlantide.

warburg@aliceposta.it

L Bianco è storico dell’arte, iconografo e traduttore

Save

Save