Stefano Valenti – La fabbrica del panico

La morte industriale

recensione di Mario Marchetti

Stefano Valenti
LA FABBRICA DEL PANICO
pp. 119, € 11
Feltrinelli, Milano 2013

la-fabbricaNarrazione inusuale che si addentra con rara efficacia nell’universo rimosso delle cattedrali industriali, La fabbrica del panico è stato segnalata dal comitato di lettura della XXVI edizione del Premio Calvino con queste parole: “Per la straordinaria intensità emotiva e di scrittura con cui il testo affronta il tema della ‘morte industriale’”. In realtà il tema non è solo questo, anche se questo è il nucleo da cui il testo è sgorgato. Un figlio parla del padre, operaio delle acciaierie Breda di Sesto San Giovanni (la ormai ex Stalingrado d’Italia), ne ripercorre la vita in una sorta di fiammeggiante balbettio interiore: è un figlio in preda all’angoscia, soggetto a crisi di panico (questa è l’eredità che ha ricevuto): vuole ridare consistenza a quella silhouette sfuggente, a quell’uomo passato inosservato agli occhi del mondo che, venuto dalle sterili e povere montagne della Valtellina (un paesaggio di handkiana freddezza e solitudine), arriva nella Milano dello sviluppo per offrire il proprio corpo al Moloch degli altiforni, quando l’amianto era semplicemente il nome di un materiale resistente al calore, che celava ancora, almeno per gli innocenti, il suo micidiale segreto cancerogeno: “Gli innocenti scendevano in pianura come un torrente in piena per far funzionare le fabbriche. Nei paesini di montagna inariditi, rimanevano vecchi e donne a dissodare con fatica un terreno contratto dalle gelate invernali e mal riscaldato da un sole lontano. Non era possibile sopravvivere lassù”.

In fonderia, avvengono esplosioni nei forni che fanno tremare le pareti, vibrare le macchine, vacillare corpi e menti. Tra fragore e fulgore della fiamme, l’individuo smarrisce la coscienza: tutta la sua energia è volta a mantenere il necessario e labile controllo del corpo, a rispettare ritmi, a ripetere gesti che vanno calcolati al millimetro. Il padre soffre: per cultura ancestrale, per orgoglio di povero, accetta il dolore, accetta la condizione servile, accetta la malattia che lo uccide. Trova una ragione di vita, cui si aggrappa disperatamente, nella pittura: ogni pensiero libero, ogni attimo libero viene dedicato a essa, a una pratica di cui non si sente neppure degno (ai propri occhi è un inutile al mondo). E tutto questo è espresso con un linguaggio denso, scabro, ricco di accensioni, potente e potentemente moderno. Valenti (il figlio?) dà voce alla soggettività, pur essendo il suo libro perfettamente e meticolosamente documentato: è la storia di un’anima ingabbiata nella fabbrica fordista. Siamo vicini a certe atmosfere tratteggiate dal Volponi del Memoriale, e le mille miglia lontani dall’aura prometeica (del cui sottofondo sappiamo: la falsa coscienza dello stalinismo) che circonfondeva i romanzi di fabbrica sovietici degli anni trenta dai titoli altisonanti, uno per tutti Il secondo giorno della creazione del peraltro notevole Il’ja Erenburg. Qui non c’è neppure falsa coscienza, c’è solo svuotamento, il nulla nullificante.

Ma a poco a poco, nel padre che senza saperlo è sempre in corso di morte, sboccia l’odio, il disprezzo verso tutto e verso tutti, e non solo un odio di classe: e l’odio diventa la redenzione, che lo fa diventare promotore, insieme ad altri, di un Comitato per la difesa della salute degli operai. E qui emerge una bella figura tipica di quegli anni (che non sono solo stati anni di piombo), come tante allora ne produceva il sindacato a livello di base (chi ha vissuto quegli anni si ricorda di quegli uomini e di quelle donne che animavano con straordinaria cultura sociale consigli d’istituto, quartieri, sezioni politiche, manifestazioni): Cesare, che diventa un punto di riferimento non solo per il padre, ma, dopo la morte del padre, anche per il figlio (intellettuale intriso di panico, di vergogna e odiernamente precario) che raccoglierà testimonianze e ne scriverà. Nel libro c’è ancora altro, boschi e torrenti di montagna, un processo che assolve i dirigenti, un coro di figure operaie sinteticamente schizzate, una precisione acribica nel tratteggiare i sintomi oggettivi e soggettivi delle malattie da amianto e da fumi (sulla scia dell’attuale “bioletteratura” che mette al proprio centro la corporeità biologica nelle sue trasformazioni, che sia eccitata o gestante, vecchia o malata).

Naturalmente, come si sa, non è una storia finita: l’Ilva e Taranto ce l’hanno rammemorata di recente. È una storia che prolifera in nuove forme: i lavoratori-droni di Amazon o i lavoratori-robot di MacDonald’s ne sono l’ultima metastasi. Non sarà più mesotelioma, ma i guasti fisici e mentali del taylorismo digitale non sono da meno. Straordinario merito di Valenti è di avvicinarci narrativamente a questi temi che per lo più la narrativa espunge, forclude. E sappiamo che la scrittura può essere uno strumento formidabile di conoscenza.

m.ugomarchetti@gmail.com

M Marchetti è insegnante e traduttore