Jared Diamond – Il mondo fino a ieri

Non siamo padroni del nostro destino

recensito da Guido Barbujani

dal numero di settembre 2013

Jared Diamond
IL MONDO FINO A IERI
Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali?
ed. orig. 2013, trad. dall’inglese di Anna Rusconi
pp. IX-504, € 29
Einaudi, Torino 2013

Comincia e finisce in due aeroporti il nuovo libro di Jared Diamond, ma in mezzo, per quattrocentosettanta fitte pagine, di posti interessanti se ne incontrano parecchi. E poi può essere interessante perfino un aeroporto, se è quello di Port Moresby, in Nuova Guinea. Nel 1931, all’arrivo dei primi esploratori australiani, c’erano sull’isola un milione di abitanti, per lo più estremamente bellicosi, che si servivano di utensili di pietra scheggiata e parlavano centinaia di lingue diverse; oggi i loro nipoti pilotano aerei e chiacchierano fra loro in inglese senza aggredirsi a vicenda. Dunque, nel giro di un secolo la Nuova Guinea, o almeno una parte dei suoi abitanti, ha percorso un tragitto che altrove ha richiesto millenni. Cosa ci abbia perso e cosa ci abbia guadagnato è la domanda da cui Diamond prende spunto per un’esplorazione a largo raggio delle società che altri chiamano primitive e lui preferisce chiamare tradizionali: trentanove in tutto, distribuite su quattro continenti (manca solo l’Europa). Fisiologo di formazione, antropologo autodidatta e ornitologo, oggi professore di geografia a Los Angeles, Jared Diamond è uno dei più eclettici saggisti viventi. I suoi libri vendono bene e sono scritti con l’intento di essere facilmente accessibili, ma anche di mandare un forte messaggio sociale, nel desiderio di coniugare, si sarebbe detto un tempo, l’utile al dilettevole. Nell’ultimo saggio, già molto premiato e molto criticato negli Stati Uniti, l’utile è dichiarato esplicitamente nel sottotitolo.

Da sempre, in effetti, i lavori di Diamond sono accolti da lodi entusiastiche e da accuse di dilettantismo, e Il mondo fino a ieri non fa eccezione. Si ammira l’autore per la facilità con cui passa da un argomento all’altro, sempre informato e sicuro di sé, ma non si sfugge alla sensazione che spesso sia troppo sbrigativo, a partire dalla dicotomia principale: noi e loro, società tradizionali e società moderne. Diamond è consapevole del rischio e mette in chiaro da subito di non credere a questa semplice contrapposizione; le cose, scrive, sono per forza molto più complesse di quanto una visione bipolare del mondo (greci e barbari, noi e loro) possa contemplare. Lo scrive ma poi, in pratica, se ne dimentica. Di là, quindi, ci sono loro: gli indigeni africani, papuasici, australiani e americani; fanno cose diverse e vedono il mondo in modi diversi, ma li accomuna il fatto di non essere come quelli di qua, cioè noi, cioè (immagino) i lettori nordamericani a cui Diamond si rivolge.
Ma noi, noi occidentali, siamo proprio tutti uguali, a parte la nostra comune dipendenza da tecnologie altrove non disponibili? Mi sa di no, e per convincersene si può ad esempio riflettere sui disinvolti paragrafi in cui, sorvolando su un dibattito che risale almeno a Cesare Beccaria, Diamond enuncia quali siano secondo lui le tre funzioni della pena: deterrente prima di tutto, poi “quella di infliggere la punizione in sé”, riaffermando il controllo del territorio da parte dello stato, e solo in terzo luogo quella riabilitativa, su cui peraltro è doveroso un certo scetticismo. Così, nato come proposta di confronto fra due mondi, per il lettore italiano questo libro si trasforma spesso in un confronto a tre, in cui la società americana, che per Diamond è la società senza aggettivi, appare talvolta remota e sorprendente quanto quelle dei Dani o dei Turkana.

Tribu-Papua-Nuova-Guinea

E ovviamente, se noi non siamo tutti uguali, non lo sono neanche loro, le società tradizionali, né è facile dimostrare che il processo di evoluzione dal primitivo al tecnologico sia stato lineare, come Diamond dà per scontato: dove sta scritto che loro sono oggi come noi eravamo millenni fa? Stephen Corry, un famoso attivista impegnato nella difesa dei diritti delle popolazioni indigene, ha accusato Diamond di farsi portatore di una visione caricaturale delle società tradizionali, in accordo con le tendenze neocolonialiste che stanno riemergendo nel mondo accademico americano.
Intendiamoci, Diamond si distingue esplicitamente da chi nel suo paese va riesumando le vecchie, ignobili idee di superiorità razziale. Immagino che di fronte alle obiezioni di Corry abbia scrollato le spalle: quello che lo interessa davvero non è darci un quadro coerente della vita dei popoli di mezzo mondo, quanto applicare alle scienze sociali i metodi delle scienze esatte, individuare rapporti di causa ed effetto.

Insomma, Jared Diamond invita il lettore a esplorare con lui un mondo deterministico, un mondo in cui a certe cause corrispondono certi effetti, e individuando le prime si possono produrre, o evitare quando è il caso, i secondi. È un mondo che ha parecchi pregi, primo fra tutti quello di darci la sensazione, o forse l’illusione, di poter padroneggiare il nostro destino: ma ha anche qualche difetto, primo fra tutti quello di essere poco convincente. Cercare di leggere, nella complessità della storia, linee di tendenza; cercare di riconoscere, nell’accavallarsi degli eventi, quelli più significativi, che possano darci tempestivamente l’allarme: tutto questo è molto utile. Ma c’è poco da fare, la Terra è un posto complicato, e piuttosto riluttante a farsi comprendere in quattro semplici formulette. Di questo libro, alla fine, si apprezzano soprattutto le storie, le tantissime storie insolite che Diamond racconta con competenza. E se dopo avercele raccontate insiste troppo nel tentativo di estrarne una morale, voltare pagina e passare alla storia successiva può essere una buona forma di autodifesa.

bjg@unife.it

G Barbujani insegna genetica all’Università di Ferrara