Quino – Tutto Mafalda

 Bambini terribili sopravvissuti a ideologie ammaccate

                                                                                                                     recensione di Andrea Pagliardi

dal numero di settembre 2014

Quino
TUTTO MAFALDA
a cura di Ivan Giovannucci
pp. 599, € 35
Salani, Milano 2013

All’inizio degli anni settanta per le strade di Buenos Aires ci si poteva imbattere in un manifesto estrapolato da una striscia di Quino in cui Mafalda, indicando il manganello di un poliziotto, spiegava: “Questo è il bastoncino per ammaccare le ideologie”. Quando Quino iniziò a lavorare al personaggio di Mafalda non avrebbe certo immaginato che di lì a pochi anni la sua creatura avrebbe finito con l’incarnare a livello planetario lo spirito contestatario di un’intera epoca.

Era il 1963. Sulla scorta del successo editoriale di Mondo Quino (Bompiani, 1970), la prima straordinaria raccolta di vignette di Joaquín Salvador Lavado Tejón, in arte Quino, un’agenzia pubblicitaria commissionò al giovane e promettente autore una striscia comica per promuovere una linea di elettrodomestici. Il fumetto doveva raccontare le vicende di una famiglia di ceto medio, il target a cui si rivolgevano i prodotti, con personaggi e situazioni che guardavano a un modello di vita nordamericano. La ditta era la Mansfield, da cui, per assonanza, il nome del personaggio principale: Mafalda. Alla fine il progetto venne accantonato, ma due anni dopo Quino riprese in mano quello spunto e lo ripropose in una chiave completamente diversa al periodico “Primera Plana”, che gli aveva affidato una striscia settimanale di satira politica e sociale. In apparenza il mondo di Mafalda riflette solo marginalmente i problemi e le tensioni politiche che scuotevano il Sudamerica alla fine degli anni sessanta e fu per tale motivo che la striscia ricevette inizialmente un’accoglienza tiepida proprio da parte del peronismo più radicale che la considerava impermeabile ai fermenti rivoluzionari di quegli anni. In effetti Mafalda abita nel quartiere di Sant’Elmo, tranquilla zona residenziale di Buenos Aires popolata da impiegati, immigrati europei e piccoli commercianti che sembrano descrivere una visione quasi propagandistica del sogno americano in terra straniera.

In realtà è vero l’opposto: la famiglia di Mafalda e quelle dei suoi amici rappresentano le storture e le contraddizioni di una società benestante e benpensante nella quale dominano il disimpegno politico, l’individualismo e il conservatorismo. A partire da tale contesto Quino ha creato un efficacissimo gruppetto di bambini che sono l’innocente, ironico e spietato riflesso del pianeta degli adulti in tutte le sue aberranti sfaccettature: Manolito è il figlio di un immigrato spagnolo votato al dio denaro, dedito in modo fanatico e ottuso alla sua piccola attività commerciale; Susanita è l’immagine speculare della madre, una donna conformista, reazionaria e classista i cui unici valori sono la famiglia e l’arrampicata sociale. Felipe è il figlio della modernità per eccellenza, simbolo dell’individualismo problematico: sempre travolto da dubbi e ripensamenti incarna le insicurezze della vita contemporanea. Miguelito, il candido e stralunato sognatore che spesso sorprende per la sua sopita aggressività, è nipote di un immigrato italiano che vive nel mito nostalgico di Mussolini e che auspica il ritorno di un potere forte e autoritario. Libertà, l’ultima arrivata, è figlia di una coppia di giovani progressisti, dei quali rispecchia, a partire dal suo stesso nome, una militanza politica e ideologica che si nutre di incoerenze e luoghi comuni e che, nella bimba, spesso si traduce in pura strafottenza.

L’umorismo di Quino, cinico e amaro, nasce proprio dall’incontro di questo universo piccoloborghese con la protagonista Mafalda che, insieme ai suoi amici (la bande à Mafalda, come viene chiamata in Francia), osserva, critica e giudica il mondo che la circonda. A volte la bande punta il dito e denuncia in modo esplicito la società dei grandi, altre volte alla società dei grandi fa il verso, mettendone in evidenza gli aspetti ridicoli e grotteschi, altre volte ancora dà vita a una vera e propria lotta di classe, come nel caso della guerra domestica contro gli adulti, la classe dirigente, per l’abolizione della minestra, simbolo di un’oppressione dispotica e militare. La forza dirompente di Mafalda, dunque, non risiede solo nelle caustiche e fulminanti battute dei suoi personaggi, ma anche e soprattutto dal pulpito scelto per sferrare le stoccate: Mafalda parla a tutti noi dall’alto di un pouf accanto a un mappamondo, nel salotto di una delle tante famiglie di ceto medio, quelle che, per intenderci, acquisterebbero gli elettrodomestici Mansfield.

In una cornice come questa, dove l’indifferenza politica e l’insensibilità sociale sono la filosofia imperante, Mafalda non viene capita: come spesso le fanno notare, non si occupa di cose della sua età. “Tu che sei grande, dimmi, cos’è questo pasticcio del Vietnam?”. “Mafalda, non è roba per bambini!”. “E se me lo spieghi senza le parti pornografiche?” Attraverso le disarmanti domande della temibile bimba, Quino raccontò il mondo che in quegli anni stava cambiando in modo frenetico: il Maggio francese, il terrorismo in Italia, Nixon, il Vietnam e il Watergate, l’Urss di Breznev, la corsa agli armamenti, la minaccia nucleare, i Beatles e i Rolling Stones, la guerra dei Sei giorni, i viaggi nello spazio, la rivoluzione culturale e lo spettro maoista.

Mafalda venne pubblicata su diverse testate in tutta l’America Latina, diventando in pochi anni popolarissima e nel 1968 sbarcò in un’Europa ancora scossa dai movimenti studenteschi. La prima traduzione fu proprio italiana: una trentina di strisce apparvero in un’antologia (Il libro dei bambini terribili per adulti masochisti, a cura di Marcello Ravoni e Valerio Riva, Feltrinelli, 1968) e l’anno dopo Bompiani pubblicò con il significativo titolo Mafalda la contestataria il primo volume di strisce interamente dedicato alla bambina argentina, corredato da un’introduzione di Umberto Eco. Nel corso degli anni settanta l’“eroina dei Due Mondi” (la definizione è di Oreste del Buono, in Quino, Mafalda 25, Bompiani, 1989) venne tradotta in dozzine di lingue e, come dimostrano diversi casi di censura, diventò la scomoda icona del dissenso politico e sociale in Sudamerica (le sue strisce non entrarono mai nel Cile di Pinochet né nella Bolivia di Barrientos) e nel mondo intero (nella Spagna ancora franchista i libri di Mafalda uscirono con una fascetta su cui era scritto “solo per adulti”).

Era l’estate del 1973. A nove anni dalla prima striscia Quino si congedò definitivamente dal suo personaggio: in più occasioni dichiarò che era ormai diventato difficile per lui non ripetersi e continuare a sfornare idee originali. Senza dubbio, però, contarono nella decisione anche motivazioni politiche. Era infatti un buon momento per far uscire di scena Mafalda: Perón era rientrato in Argentina dopo un esilio quasi ventennale, pronto a trionfare alle elezioni libere che si sarebbero tenute in settembre. Il periodo delle dittature militari e dei governi corrotti pareva un ricordo del passato, il paese sembrava aver finalmente imboccato la strada della democrazia e quella che la stampa definiva “liberazione nazionale”. In una delle ultime vignette apparse su “Siete Días” Mafalda avvisava il suo pubblico: “E pensiamo, signor direttore, che… insomma… con la liberazione nazionale… che ne direbbe se per un po’ di tempo noi liberassimo i lettori di questa compagnia?”.

Eppure, nemmeno un anno dopo, con la morte di Perón, la situazione prese nuovamente a precipitare: i problemi economici rendevano impossibile amministrare il paese e i conflitti interni al partito peronista paralizzavano ogni iniziativa politica, mentre si moltiplicavano gli atti terroristici di movimenti paramilitari. Iniziarono a comparire sui muri di Buenos Aires alcuni manifesti in difesa della repressione della polizia contro gli studenti che, ribaltando completamente il senso del poster che circolava solo pochi anni prima, mostravano Manolito indicare il manganello del poliziotto e dire: “Vedi, Mafalda? Grazie a questo bastoncino oggi puoi andare a scuola”. Forse gli amici di Mafalda avrebbero accettato il nuovo clima politico, annegando le loro vite nel lavoro o nella famiglia, ma la bimba contestataria di certo non avrebbe taciuto. In diverse interviste Quino ha dichiarato che, probabilmente, Mafalda non sarebbe mai diventata grande: alla fine degli anni settanta l’avrebbero portata via e sarebbe scomparsa in fondo al Rio della Plata o all’Oceano Atlantico. Fuori di metafora era il suo autore a rischiare la vita: nell’autunno del 1975 una squadra armata fece un’irruzione intimidatoria nel suo appartamento di Buenos Aires e una bomba venne messa davanti all’Editorial Abril, la casa editrice per cui a quel tempo Quino lavorava. Nel marzo dell’anno successivo, in concomitanza con il golpe di Videla, Quino abbandonò il paese e si trasferì in Italia, poco prima che Pinochet destituisse e portasse alla morte il presidente cileno Allende.

I timori di Quino erano tutt’altro che infondati: il dissenso espresso attraverso la satira a fumetti riesce a raggiungere milioni di persone in modo immediato ed efficace, pertanto era severamente represso dal regime. Soltanto l’anno dopo Hèctor G. Oesterheld, autore dell’Eternauta, la più importante historieta argentina, venne arrestato, torturato e ucciso per motivi politici (cfr. “L’Indice”, 2011, n. 11).

Nei decenni successivi Quino continuò a dedicarsi alla satira con la sua inimitabile carica polemica, disegnando per giornali e riviste di diversi paesi migliaia vignette, poi raccolte in volumi diffusi in tutto il mondo. Irriducibilmente pessimista, la sua critica continua a non risparmiare nessuno e prende di mira i burocrati, le istituzioni, la politica, l’imperialismo, le ideologie, le leggi economiche, l’esercito, i sistemi educativi, la sanità pubblica e molti altri aspetti di un mondo che continua a funzionare male. L’orizzonte di Quino è l’umanità nel suo complesso ed è proprio questo aspetto che rende il suo umorismo immune al tempo e allo spazio.

Eppure, nonostante il successo ottenuto e le pressioni di lettori ed editori, se si escludono una manciata di tavole realizzate per campagne sociali e umanitarie per l’Unicef e per la Croce rossa Quino non tornò più a disegnare Mafalda: la bambina contestataria è uscita dalle strisce, ma è entrata nella leggenda, diventando una vera e propria icona del “secolo breve” (intervistato, alla domanda su cosa pensasse di Mafalda, Julio Cortázar rispose: “Veramente importante è ciò che Mafalda pensa di me”).

In occasione dei cinquant’anni dalla pubblicazione della prima striscia di Mafalda, Salani ripropone in un pregevole volume dorato, l’intero corpus di vignette che hanno come protagonista la terribile bambina. Il tomo è, a tutt’oggi, la raccolta più completa disponibile in italiano: oltre alle 1929 strisce ufficiali apparse in prima pubblicazione su diverse testate argentine, il libro contiene parecchio materiale inedito o difficilmente reperibile, una cronologia dettagliata, diverse testimonianze e interventi di approfondimento.

Dal lontano 1964 il mondo è cambiato, ma Mafalda non è invecchiata affatto e l’efficacia della sua denuncia resta viva ancora oggi. A cinquant’anni di distanza Mafalda continua a fare domande per comprendere l’assurdo universo degli adulti, senza mai ottenere risposte. Eppure, come scrive Marcello Bernardi nell’introduzione a Tutta Mafalda (Bompiani, 1978), “è proprio dalle domande senza risposta che nascono le rivoluzioni”.

andreapagliardi@gmail.com

A. Pagliardi è direttore editoriale dell’Indice