Claudio Magris – Istantanee

Lampi sul presente

recensione di Anna Chiarloni

dal numero di febbraio 2017

Claudio Magris
ISTANTANEE
pp. 178, € 18
La nave di Teseo, Milano 2016

Claudio Magris - IstantaneeQuarto volume della collana “I Fari”, il libro raccoglie quarantotto microracconti disposti in ordine cronologico, dal 1999 al 2016. Sono lampi gettati nel solco del presente che illuminano il prisma dell’esistenza, osservata con una capacità di penetrazione psicologica insolita nella narrativa contemporanea. Brevi appunti, vibranti di una resa fisiognomica degna di un Lavater, rendono un’ampia gamma di caratteri, sentimenti, situazioni. Dalla nativa generosità di un reduce, uso a galleggiare sui marosi nemici (L’oste e la sua guerra), alla pochezza di certi allibratori della politica nostrana (Abbasso i poveri), fino al candore dei bambini intenti ai giochi di spiaggia, richiamati in copertina dalla nitida inquadratura di Luigi Ghirri. Chi legge il “Corriere” conosce la critica civile di Magris. Anche qui la scrittura non teme di inoltrarsi nella sottostoria nostrana, cogliendo con rapido metronomo vuoi la “maledizione del numero verde” e il “quaresimale” della pubblicità televisiva, vuoi le perversioni della burocrazia universitaria e telematica, o ancora usando la maschera asettica di una pretesa razionalità scientifica (Embrioni umani). Brilla in questi fotogrammi il gusto per la parodia e, spesso grazie alla pointe finale, esplode una vis comica inconsueta, grato segnale di un’invidiabile salute emotiva. Perché sono pagine, queste, che non di rado muovono al riso, basti leggere il Ritratto di gruppo con giurista addormentato o l’autoironica Scogliera dei famosi.

Soggetto privilegiato di molte istantanee è la coppia, quella stabile, affiatata, e quindi in muto equilibrio, o anche sgualcita dalla vita e quindi filmata nelle sue controverse mosse coniugali, interdipendenti eppure ostili, come vuole un dettato tradizionale, forse latino, di verbale sbattagliamento domestico, tanto più quando la coppia in questione s’imbatte in un disguido ferroviario (Sui binari).

Nella resa delle varie costellazioni affettive non manca una sorta di nostalgia per il “breve incontro” alla David Lean, per la fugace dolcezza di uno sguardo che spinge verso un dove che non ha più nome istituzionale. Più spesso però non a caso il libro è dedicato ai genitori l’obiettivo mette a fuoco il vissuto quotidiano dei legami consolidati, talora fusi nella mitezza del dialetto: rapide immagini colte sulla Barcola, la scogliera cara ai triestini, o in qualche locanda di montagna, dove ancora s’incontrano figure di mogli con nel viso quel timore antico della parola che solo le necessità della vita costringe a superare (Parleremo). Non di rado Magris tocca le corde fondamentali della genealogia familiare, come quando s’interroga sul dialogo col corpo materno. Quasi una spina che trafigge, mi pare allora che risuoni nella scrittura l’eco obliqua di una diatriba tuttora in corso, quella sulla vita prenatale, e indirettamente sull’aborto. Nella Pietra di Jens ad esempio, la riflessione muove da una lapide dedicata a un neonato, Jens appunto, sepolto nel piccolo cimitero di un villaggio norvegese. La data incisa nella pietra è una sola, dunque vita e morte si sono sovrapposte, ma la luce, forse appena intravista da quel bambino, fonda “un’esistenza minima ma assoluta e insostituibile” perché “Jens non ha vissuto solo un giorno, bensì nove mesi più un giorno e in quei nove mesi ha nuotato, ha sentito voci che forse per lui erano la felicità”. Il racconto si configura così come un epitaffio poetico dedicato a ogni forma di vita protetta nell’ombra del grembo materno.

Più vicine all’impianto della celebrata produzione letteraria degli ultimi anni sono quei passaggi in cui Magris scandaglia il buio delle pulsioni elementari dove, senza distinzione di specie, si perde il significato della coscienza. Si prenda la prima folgorante istantanea, La colomba e l’aquila bicipite: qui lo scempio di natura diventa metafora di altro oltraggio perché s’intuisce un’oscura contiguità tra quei piccioni di un giardino pubblico (che “in fila ordinata” montano una colomba morta, “a turno, uno dopo l’altro, mentre il gruppo sta a guardare”) e il branco di allupati giovanotti balneari, “interscambiabili nella loro scurrilità”, che allungano le mani sul corpo innocente di una giovane donna (Leone marino).
Acuto osservatore, Magris scatta un ampio ventaglio di istantanee che nel mutare di situazioni e linguaggi compongono un affresco multiforme. Ma non si defila dietro la camera oscura, al contrario entra lui stesso nel campo visivo, come in Tutto bene – o nel corrosivo autoscatto finale intitolato Selfie, dove il gioco ottico rovescia la figura di un automobilista inferocito e cieco alla realtà sull’io fotografico – pronto a sparire nel buio. Chiuso il libro, resta nell’orecchio quell’effetto stereofonico, quasi a dirci come siamo: stelo e sterpo, scriveva Zanzotto.

anna.chiarloni@unito.it

A Chiarloni è professore emerito di letteratura tedesca all’Università di Torino