Boualem Sansal – 2084

Più duro di Houellebecq

recensione di Luisa Gerini

dal numero di novembre 2016

Boualem Sansal
2084
La fine del mondo
ed orig. 2015, trad. dal francese di Margherita Botto
pp. 254, € 17
Neri Pozza, Vicenza 2016

sansalLa Guerra Santa contro i “propagandisti della Grande Miscredenza” è stata sanguinosa e terribile. Nell’impero nato da questo epico scontro nel nome di Yölah, un impero talmente vasto da non riuscire a immaginarne i confini e chiamato Abistan in onore del profeta Abi, la quotidianità scorre ora nell’apatica adesione alle rigide regole imposte dall’Apparato e dai dignitari della Giusta Fraternità. Nulla viene lasciato al caso dal regime teocratico che con la sua azione capillare controlla la vita degli abitanti, dagli spettacoli di punizioni esemplari per chi non rispetta fedelmente i precetti religiosi agli imponenti pellegrinaggi ch­e spostano masse enormi di fedeli da un capo all’altro dell’impero.

In questo soffocante ingranaggio che trae forza dagli effetti pervasivi della propaganda per incanalare pensieri e desideri, la Storia stessa perde di significato, abusata e trasformata in narrazione in cui i confini tra i fatti realmente accaduti e la versione ufficiale diventano incerti, oscuri. Ed è così che la data emblematica che dà il titolo al romanzo di Boualem Sansal (un evidente richiamo alla distopia orwelliana come del resto lo è tutto il libro), quel 2084 che tutti gli abistani hanno “piantato in testa come una verità eterna” non è altro che un concetto confuso per le generazioni della Nuova Era. Sarà legato alla Prima Guerra Santa? A qualche episodio della vita di Abi, il Delegato? Nessuno lo sa né sembra davvero curarsene, perché la misura del tempo e del significato delle cose è stata ormai posta nelle mani di Yölah. 2084 è invece per Sansal una scelta funzionale all’urgenza del monito che intende inviare alla società occidentale sulla scia di Houellebecq, che in un’intervista ha definito il libro “molto più duro del mio Sottomissione”: tracciando come Orwell un orizzonte temporale non poi così remoto, Sansal immagina con toni apocalittici, a tratti asfissianti, lo scenario cupo di un mondo dominato dal fondamentalismo islamico.

Attraverso il risveglio del protagonista Ati (un risveglio che non a caso inizia ai margini dell’impero, in un sanatorio isolato dove la guarigione non sarà solo fisica ma dal torpore della coscienza di sé e del mondo), Sansal svela uno dopo l’altro per scardinarli i meccanismi e le mistificazioni del totalitarismo teocratico. La sua abilità nella costruzione del nemico, innanzitutto, funzionale alla definizione del “noi” contro “loro”: un nemico che diviene una minaccia invisibile e incombente, ma che si incarna anche nella popolazione del ghetto, un universo caotico e impuro; o peggio che viene creato artificialmente perché “essere il proprio nemico è la garanzia per vincere sistematicamente”. Oppure l’imposizione dell’Abiling, una lingua che destruttura il pensiero al fine di plasmare la mente con la sua elementare semplicità: una lingua ammaliante e rigida al tempo stesso, in grado di cancellare l’essenza dell’uomo, la sua singolarità, per amalgamarlo indissolubilmente alla comunità dei credenti della sua stessa fede attraverso le parole del Gkabul, il libro sacro.

Romanzo di punta della rentrée littéraire francese del 2015 grazie anche al Grand Prix du roman dell’Académie française, l’uscita del libro in Francia ha coinciso con gli attentati che hanno colpito il paese. La sua risonanza è stata amplificata dalle prese di posizione forti dello scrittore algerino: “Date un nome al nemico, date un nome al male” ha scritto nel marzo di quest’anno su “Le Monde” “Se alle autorità mancano le parole, posso prestare le mie: l’Islam radicale, l’Islam moderato come suo sostegno, il salafismo, l’Arabia, il Qatar, le  dittature arabe”. Prese di posizione che non hanno mancato di suscitare reazioni opposte, dall’accusa di islamofobia rinforzata dal suo silenzio sulla questione palestinese, al plauso per la denuncia delle derive dell’islamismo radicale da parte di chi ha conosciuto in prima persona il Gia.

Quello che emerge indiscutibilmente dal romanzo è l’invito a prendere coscienza, a reagire, ed è questa la sua forza. Il viaggio di Ati con l’amico Koa sulle tracce di Nas, un funzionario misteriosamente scomparso dopo aver fatto una scoperta archeologica di primaria importanza, non potrà che rivelarsi un percorso ricco di insidie. Pedine inconsapevoli di un piano per cambiare gli equilibri di potere ai livelli più alti del governo, sarà grazie alla visita di un museo del XX secolo creato clandestinamente che Ati troverà il senso della sua ricerca. Il viaggio in quel passato ignorato perché cancellato con determinazione dall’Apparato non farà che confermare in lui l’intuizione dell’esistenza di un altrove avuta in sanatorio. Occupando tutti gli spazi possibili, fisici e mentali, l’Apparato ha instillato pervicacemente la negazione dell’esistenza della pluralità di pensiero, di lingua e di credo. Ma se la frontiera esiste davvero, nel tempo e nello spazio, la strada è tracciata per uscire dalla prigionia del fanatismo totalitario.

luisa.gerini@lindice.net