Tierno Monénembo – Il terrorista nero

Baracche di partigiani come quelle africane

recensione di Giacomo Verri

dal numero di febbraio 2016

Tierno Monénembo
IL TERRORISTA NERO
ed. orig. 2012, trad. dal francese di Erika Tancini
pp. 221, € 18
Nuova Editrice Berti, Parma 2015

Tierno Monénembo - Il terrorista neroLa memoria di un luogo può affondare le radici molto lontano, radici che valicano monti e passano mari, radici che salgono addirittura da altri continenti. È il caso della storia di Il terrorista nero, nuovo tassello di narrativa resistenziale d’oltralpe, opera del guineano, naturalizzato francese, Tierno Monénembo, ora in Italia nella traduzione di Erika Tancini.
Eccezionale vicenda, quella del protagonista del libro, Addi Bâ Mamadou, guineano, classe 1916, nato il giorno di Natale e morto fucilato il 18 dicembre 1943 a Èpinal, dopo una carriera nel XII reggimento fucilieri senegalesi, dopo essere passato alla Resistenza tra i primi maquisards dei Vosgi, dopo aver subito torture, pestaggi a sangue e umiliazioni. Teatro degli avvenimenti è Romaincourt, un paesino di poche anime della Francia nordorientale, sotto il cui nome di fantasia si cela il piccolo borgo di Tollaincourt, sulla riva sinistra del fiume Mouzon, dove davvero si consuma il destino di passione dell’uomo Addi Bâ.
Difficile dire dove finisca la storia e dove l’invenzione letteraria abbia inizio in questo inaspettato romanzo che per brevi paragrafi incede indugiando nell’atmosfera magica, a tratti sospesa, tra il bosco del Grand Chenois e le ultime propaggini del paese, là dove “le bombe andavano in frantumi sotto le zampe dei daini”, e “i cani lupo si spingevano a gemere fin davanti alle porte delle case”. È mezzo morto Addi Bâ, quando fa la sua entrata in scena, lo trovano riverso tra le foglie i Valdenaire padre e figlio. Due maschi che da soli non si decidono – non bastano – a salvarlo dalla terra in cui sarebbe marcito, senza l’intervento, insostituibile, della donna di casa, Yolande, la direttrice della scuola, domestica eroina che con risoluta passione lascia che “un negro uscito dal nulla venisse a turbare quella casa senza storia, così ben radicata negli antichi principi dei Vosgi: la famiglia, il lavoro, la zuppa e la noia”.

Un romanzo molto femminile

TollaincourtSi tratta di un turbamento quasi invisibile ma profondo. Addi Bâ, l’uomo dalla pelle color ricino, adagio si cura le ferite, si spalma addosso il muco di lumaca o la resina della felce; e mentre assorbe, alla lettera, gli umori di quelle montagne e delle sue leggende, inizia anche a farsi conoscere, inizia ad amare, inizia a penetrare nel cuore della gente di Romaincourt, ossessionata tutta “da qualcosa di strano da quando c’è questa guerra”. La storia di Addi Bâ sale a poco a poco dal sottosuolo in cui i tedeschi della caserma di Neufchâteau l’avevano schiacciato, dopo averlo fatto prigioniero sulla Mosa, nel giugno del 1940, e silenziosamente rimette in riga le inani ostinazioni di una gente troppo ripiegata sui propri rancori e sulle comuni paure. È un romanzo, questo, molto femminile. Accanto al nero che guida le coscienze migliori nei primi passi del delicato percorso che condurrà il paese verso la libertà (e accanto al colonnello Bernard Michel, che con Addi Bâ instaura un rapporto di orgogliosa amicizia), ci sono soprattutto delle donne: c’è Yolande, si è visto, la cui autorità materna è materia di austera attrazione; c’è la Pinéguette, la folle Pinéguette dai discorsi altisonanti e imprevedibili che per decenni tenta di persuadere tutti, nonostante la palese chiarità della sua pelle, che Addi Bâ è suo padre; e c’è Germaine Tergoresse, infine, la voce narrante che conduce quasi involontariamente, con il tono pacato di una tenace diarista, sulle tracce dell’uomo che deviò la storia di Romaincourt, cambiandola da paesino in cui “i rancori durano un secolo” a teatro di vicende senza le quali la nostra fantasia sulla guerra di Resistenza mancherebbe di qualcosa.

E l’infaticabile narratrice di questa storia, Germaine, con una sensibilità delicata davvero e con la coscienza che “la vita di un uomo come lui non si riassume”, perché “troppo vasta, troppo tortuosa, troppo incomprensibile, un vero fiume”, ci racconta senza rumorose denunce quanto la Liberazione avesse scartato l’eroe Addi Bâ solo perché nero, e frattanto dipinge, anche qui senza idealismi, la ribellione dei Vosgi, lassù alla Quercia del Partigiano, dove “la Resistenza era soltanto abbozzata”, dove le baracche costruite dai volontari per la libertà “assomigliavano a quelle africane” e dove (come in tanti posti è avvenuto), per la bravata di uno o due, si finiva morti fucilati al Monte della Vergine. “Quell’uomo non è stato un fantasma passeggero, scoperto a girovagare tra gli alberi in sella a una vecchia bicicletta, immobile nella uniforme da fuciliere. È a Romaincourt che ha vissuto, è per Romaincourt che è morto. Fa parte della memoria di questo posto, è la memoria di questo posto”. È a partire da qui che non solo ribadiamo l’ormai classico adagio che suggerisce l’inesausto serbatoio degli eroi della Resistenza e delle sue storie, ma suggeriamo che oggi, a settant’anni da quegli eventi accaduti una vita fa, la narrativa, quella speciale forma di memoria che passa nelle storie di invenzione come un filo d’acqua boschiva scivola tra i muschi e il marciume delle foglie, forse solo questa forma di memoria può ancora resistere e far esistere ancora il ricordo.

giaverri@gmail.com

G Verri è scrittore