Tilde Giani Gallino – Non avevo sei anni ed ero già in guerra

Una giornata particolare

recensione di Bruno Maida

dal numero di luglio/agosto 2015

Tilde Giani Gallino
NON AVEVO SEI ANNI ED ERO GIÀ IN GUERRA
pp. 216, € 22
Einaudi, Torino 2015

Tilde Giani Gallino - Non avevo sei anni ed ero già in guerra«Sono entrata in guerra che non avevo neppure sei anni, il 10 giugno 1940, alle 16,30 circa», iniziano così le memorie autobiografiche di Tilde Giani Gallino. È accaduto a tutti gli italiani di quel tempo, ma nel suo ricordo di bambina, la memoria ha una traiettoria diversa. Quel pomeriggio è la prima volta in cui viene mandata a comprare il latte da sola dall’altra parte della strada. Scendere dal quarto piano, attraversare la strada da sola, entrare nel negozio, sono tutti eventi sensazionali che meritano un ricordo indelebile. Se poi, mentre sta comprando il latte, sente da una piccola radio che le trasmissioni vengono interrotte e la voce stentorea del duce annuncia la dichiarazione di guerra, allora prende il volto di una giornata indimenticabile. Anche perché, per la prima volta, è lei a conoscere una cosa che i genitori non sanno. Ripercorre la strada velocemente ma l’effetto della notizia non è quello che si attende. Facce cupe e preoccupate, commenti rabbiosi iniziano a creare dei dubbi: come si combinano le acclamazioni e gli applausi della piazza con la reazione dei suoi genitori? Quell’entrata in guerra di una bambina di sei anni ha però anche un altro significato. Individua un prima, un dopo e una lunga fase di transizione. Il prima è l’infanzia felice, la casa protettiva, i racconti del padre e le passeggiate nella collina torinese (dove impara che le scorciatoie sono belle ma faticose), la presenza di quattro genitori considerati come tali (il padre, la madre, la madrina e suo marito), insomma «un’infanzia alla grande». Il dopo è quando finisce la guerra, l’uscita e per molti versi la perdita dell’infanzia, la scoperta della morte (la madrina e il padre a breve distanza) e dell’assenza, la scomparsa del mondo e delle sicurezze materiali che l’hanno accompagnata nei primi anni, ma è anche l’immergersi appassionato nella letteratura russa, la costruzione della propria identità, il ritrovamento di un equilibrio dopo la catastrofe.

Bambina, professoressa e forse nonna

La transizione sono gli anni della guerra, osservati da Giani Gallino con un’originale prospettiva: bambina, professoressa e forse nonna. Sono pagine infatti nelle quali si intrecciano costantemente una narrazione fresca e attenta alla dimensione infantile dello sguardo con una riflessione sui ricordi stessi, su come si sono costruiti e su come sono stati modificati dal tempo. È la studiosa della psicologia dello sviluppo che scompone e ricompone la sua memoria, la colloca, prova a separare i ricordi dalle memorie ereditate, lo sguardo del bambino da quello dell’adulto. Ma forse è anche la nonna che a ogni passaggio storico o culturale si sente in dovere di aggiungere una nota esplicativa, magari ridondante il cui senso, tuttavia, va rintracciato in una sorta di pedagogia storica, pubblica e familiare.

La prima pagina del quotidiano L’Italia all’indomani della dichiarazione di guerra

Tutt’altro che trascurabile è inoltre la prospettiva all’interno della quale si colloca lo sguardo dell’autrice. Le pagine di queste memorie sono abitate da punti di vista diversi rispetto ai quali siamo abituati in analoghe operazioni memoriali. Tra i molti ne segnalo solo due. I bombardamenti alleati, innanzitutto, sono osservati come un grande spettacolo visivo ed emotivo, individuandone però anche la dimensione di morte e non solo di salvezza, all’interno di un orizzonte di violenza che investe tutta la popolazione civile e che soprattutto a una bambina non permette nette cesure – perché sul piano dei valori è l’adulto che ricompone il quadro – tra fascisti, nazisti, partigiani e alleati. Inoltre, per la prima volta troviamo un racconto dello sfollamento come esperienza negativa: non la bambina che scopre il mondo della campagna, vi si immerge e gode della libertà che ne deriva; al contrario, il senso di spaesamento, di lontananza da un mondo un mondo per il quale Giani Gallino volutamente utilizza lo sguardo del bambino al pari di quello dell’antropologo che sente rozzo e inadatto, volgare e maschilista, atavico e violento.

Una solitaria passeggiata

Se il suo racconto si apre con un orgoglioso e solitario attraversamento della via davanti a casa, potremmo dire che si chiude con un’altrettanta solitaria passeggiata, quattro anni dopo, lungo una strada di campagna, per raggiungere i propri genitori. È il giorno del suo compleanno ed è sola, spaesata, stupita di quella condizione. Nessuna la festeggia, nessuno la guarda da una finestra per controllarla: è cambiato il mondo e l’ordine delle cose, e nessuno l’ha avvertita: «Da bambina iperprotetta, adesso ero (in un certo senso, finalmente) padrona di me stessa, ma in una situazione di assoluta precarietà, su una strada dove non ero mai stata». Il tempo di una nuova vita e la fine dell’infanzia iniziano da qui.

bruno.maida@unito.it

B Maida insegna storia contemporanea all’Università di Torino