Cultura visuale: doppia genealogia, doppia eredità

Immagini, sguardi, media, dispositivi

di Enrico Menduni

dal numero di novembre 2016

Andrea Pinotti e Antonio Somaini
CULTURA VISUALE
Immagini sguardi media dispositivi
pp. 320, € 28
Torino, Einaudi 2016

Questo libro fa il punto sul concetto recente di “cultura visuale”, nel quale si imbattono oggi tutti coloro che si occupano di immagini artificiali, fisse o in movimento, antiche o contemporanee, che il genere umano produce per i più vari motivi: decorare una grotta o la Cappella Sistina, fare un film, fotografare un condannato dell’Isis o farsi un selfie. Non si tratta infatti soltanto di studiare la motivazione e la realizzazione delle immagini, ma i modi con cui esse sono esposte, diffuse e guardate, in conseguenza di molteplici fattori: quindi non considerare solo l’immagine ma la visione. Cultura visuale, come ben spiegano i due autori, “significa prendere in esame tutti gli aspetti formali, materiali, tecnologici e sociali che contribuiscono a situare determinate immagini e determinati atti di visione in un contesto culturale ben preciso”.

PinottiLa cultura visuale ha una “doppia genealogia e una doppia eredità”, perché discende da un incontro fra storia dell’arte e teorie della fotografia e del cinema. Gli anni venti e trenta rappresentano la prima fase di questo incontro, che vede un duplice slittamento: dalle immagini ritenute artistiche a tutte le immagini, e da una cultura prevalentemente scritta a una sempre più largamente visuale, con particolare riferimento alle immagini tecnicamente riprodotte e diffuse dai media. Da un lato la storia dell’arte affronta sempre decisamente il rapporto fra gli stili artistici e gli stili di vita; dall’altro la fotografia e il cinema giungono ad una maturazione teorica, che si avvale di varie discipline e dell’esperienza diretta dei registi. I confini non sono più invalicabili: le avanguardie artistiche avevano mescolato arte e vita quotidiana, erano state “multimediali” mescolando pittura, musica, danza, teatro, pubblicità, fotografia, politica. Il cinema si è dispiegato nel Novecento come l’arte più tipica della modernità, per la sua natura di dispositivo tecnologico narrativo e per il rapporto con grandi masse di spettatori.

Compariva intanto la radio, e poi la televisione, con la nuova dimensione della simultaneità: poter rappresentare gli eventi mentre accadevano. I media scritti, soprattutto con i settimanali a rotocalco, erano diventati sempre più visuali, offrendo alla fotografia una potente rete di diffusione. Gli oggetti della quotidianità progettati per essere riprodotti serialmente hanno determinato l’invenzione del design. Poi, nel dopoguerra, arriveranno le teorie dei media in un mondo ormai segnato dalla televisione e, alla fine del secolo, si verificherà l’avvento del digitale e di internet. Di fronte alla comparsa di immagini prodotte e diffuse in modi del tutto diversi, la cultura visuale non è stata solo una scelta ma una svolta, abbastanza drastica (definita “iconic turn”), necessaria per convocare saperi utili a interpretare e descrivere artefatti e pratiche sociali per molti aspetti inediti. In primo luogo gli autori affrontano il tema dello sguardo, del rapporto fra vedere e guardare, la condizione dello spettatore e il “regime scopico”: l’insieme delle convenzioni sociali che ci permettono di leggere un’immagine in un contesto culturale determinato. Un successivo importante capitolo tratta i supporti, i media e i dispositivi: un campo completamente modificato dal digitale che può distaccare un contenuto dal suo supporto e mostrarlo su una molteplicità di dispositivi connessi fra loro. Anche il concetto di medium, del resto, viene radicalmente cambiato quando non c’è più una molteplicità di media (ciascuno con pubblico, linguaggi, luoghi ed economia propri), ma un “meta-medium”, il computer, che tratta indifferentemente testi, suoni, immagini fisse e in movimento (tutti composti da bit), e presiede sia alla loro produzione, che alla distribuzione e alla fruizione. L’unica vera differenza non è più nella natura del contenuto ma nella sua definizione. Essere a bassa definizione, poveri (poco “pesanti”) significa avere maggiori chances di diffusione; mentre l’industria dei dispositivi e dei contenuti esalta la sempre maggiore perfezione sonora e grafica, la maggiore leggerezza, di minore qualità, non è solo una scelta nostalgica, vintage, ma un modo per circolare più largamente e moltiplicare le proprie aspettative di ulteriore riproducibilità.

La parte conclusiva del libro affronta nodi decisivi dell’uso sociale delle immagini nella contemporaneità. Si moltiplicano le possibilità di lavorare con le immagini e su di esse; se già era possibile in epoca analogica, ora in epoca digitale anche l’utente comune è in grado di incorporare immagini altrui nelle proprie, di modificarle deviandone il senso, di trasgredire le regole (diritto d’autore compreso), di ricontestualizzare un contenuto. Sono pratiche che, partendo dalla fotografia, sono state totalmente annesse alle immagini in movimento, permettendo estese riconfigurazioni del visuale, definendo in modo più complesso l’idea di memoria, da sempre correlata alle immagini e alla loro natura di traccia, lasciata intenzionalmente da qualcuno: che certo ne aveva un motivo, anche se talvolta ci sfugge. La traccia è anche rapporto con il corpo e con la morte. Vi è un’esperienza diffusa delle foto post mortem, e il rapporto dell’immagine con il sacro è una costante nel tempo. Le religioni hanno avuto nei confronti del sacro un atteggiamento oscillante tra rifiuto delle immagini e la loro utilizzazione edificante. Oggi nell’estremismo islamista la componente iconoclasta esplode con violenza, punendo chi ha creato immagini considerate irriverenti “Charlie Hebdo”, riprendendo in video le decapitazioni e distruggendo siti archeologici, pur di poter mostrare le relative devastanti immagini. Lo sviluppo dei dispositivi di ripresa, minuscoli, montati su droni o adibiti a compiti di sorveglianza consente ormai infinite riconfigurazioni della dialettica fra rappresentazione della realtà e messa in scena e tra fattuale e finzionale; e anche in campi che l’analisi degli autori non ha potuto affrontare largamente, come i videogiochi. La conclusione di questo ottimo volume è dunque aperta a ulteriori studi che esso favorisce, mentre tecnologie e pratiche sociali mutano incessantemente.

enrico.menduni@uniroma3.it

E Menduni insegna cinema, televisione e nuovi media al Dams di Roma

La sezione Primo Piano del numero di Novembre 2016 dedica un altro approfondimento a Cultura visuale di Andrea Pinotti e Antonio Somaini: la recensione di Giacomo Daniele Fragapane (nell’area riservata del sito).