Francesco Guglieri racconta Pamuk: editor e autore a confronto

La stranezza che ho nella testa è una lunga lettera d’amore

di Francesco Guglieri

“Tutti devono saperlo: ho avuto una vita felice”.
Sono le ultime parole del Museo dellinnocenza (che abbiamo recensito qui): le pronuncia Kemal, il protagonista, al narratore, il “signor Pamuk”, a cui ha chiesto di scrivere la sua storia. Dopo quasi seicento pagine del racconto di un amore totalizzante, assoluto, ossessivo anche, di una passione divorante e infelice, dopo averci accompagnato per le strade di Istanbul, a volte dolcemente, altre trascinandoci controvoglia, a volte a passo svelto, altre con quello distratto e divagante del flâneur, ecco, a questo punto, davanti a queste ultime parole, anche il lettore più freddo e distaccato non può fare a meno di sentire una fitta allo stomaco per l’emozione.

L'interno del Museo dell'Innocenza

L’interno del Museo dell’Innocenza

Sono le ultime battute, ma non la fine del libro. C’è un biglietto nella pagina successiva, il biglietto per entrare al Museo dellinnocenza, e poi una cartina di Istanbul per raggiungerlo: un museo che Kemal (personaggio, di finzione) ha chiesto a Orhan Pamuk (scrittore, reale) di costruire e di cui questo romanzo dovrebbe essere il catalogo. Qualche anno dopo Pamuk aprirà davvero un Museo, lì dove il suo personaggio gli aveva chiesto, nell’amato quartiere di Beyoğlu: un museo che ri-racconta attraverso gli oggetti la storia d’amore di Kemal per Sibel, la storia di un’ossessione, la poesia di una città. Se il lettore, alla fine del romanzo, prende quella storia inventata tanto sul serio quanto lo fanno i suoi protagonisti e si metterà in cammino per raggiungere il Museo, sarà ripagato.

Orhan Pamuk - La stranezza che ho nella testaAnche La stranezza che ho nella testa è una lunga lettera d’amore per Istanbul e i suoi abitanti, alle sue trasformazioni: mentre il Museo dellinnocenza era Istanbul vista dalla borghesia (occidentalizzata, moderna, laica), nella Stranezza che ho nella testa Pamuk sposta il suo obiettivo (anzi, il suo cavalletto: pochi altri autori hanno la stessa consapevolezza pittorica di una scena quanto lui. Avrebbe voluto fare il pittore da giovane, e si vede) all’altezza dei ceti popolari, più coinvolti dalle lotte politiche e religiose – un tema quanto mai attuale considerando la Turchia di oggi: le vicende di Mevlut, il protagonista, danno vita a una grande epica popolare, tra il neorealismo italiano e Balzac.
Non è su questo che vorrei soffermarmi: ma su un particolare editoriale. Anche La stranezza è un libro – e qui intendo proprio l’oggetto materiale – particolare: Pamuk in prima persona ha dato ai suoi editori, e quindi anche all’Einaudi, precise disposizioni. Un albero genealogico all’inizio, un piccolo disegno – realizzato da Pamuk stesso, tornato pittore – di un venditore di boza a indicare ogni momento in cui il punto di vista torna quello narratore onnisciente in terza persona, due disegni che compaiono nella storia, una cronologia e un indice dei nomi. Nell’ultimissima pagina deve essere inserita una fotografia: l’immagine di un giovane venditore di boza ritratto di spalle dal grande fotografo turco Ara Güler. Il libro, per Pamuk, non è mai il semplice supporto per una storia, o la cornice, o meno ancora il neutro mezzo di trasmissione: la veste e la cura editoriale è essa stessa parte della storia, momento in cui il senso si forma e si trasmette. Diversamente, però, da un’estetica “postmoderna” (la tendenza metalinguistica e metatestuale) mi sembra che il lavoro di Pamuk non possa, e forse non debba, essere limitato a questa etichetta. Da una parte c’è qualcosa che non saprei definire se non come un tributo sentimentale a una forma – quella del libro – che l’autore sente messa in discussione. E dall’altra l’idea che tra realtà e finzione, Storia collettiva e storie individuali, epos nazionale e deriva sentimentale, invenzione e mistificazione, narrazione e libertà, invenzione e destino, i confini sono diventati instabili: anzi è l’idea stessa di confine a essere caduta, a non avere più senso. In questo non c’è necessariamente nulla di euforico o di luttuosamente ironico (come appunto nel postmoderno), ma la constatazione serena e malinconica del nostro comune essere umani, oggi.

F. Guglieri è editor