Le ragioni del No alla revisione costituzionale

Premierato assoluto e bicameralismo confuso

di Francesco Pallante

dal numero di settembre 2016

La revisione costituzionale promossa dal governo contiene cose condivisibili e cose che funzionano. Peccato che quelle che sono condivisibili non funzionino e che quelle che funzionano non siano condivisibili. Iniziamo dalle prime. L’idea di semplificare il sistema istituzionale, a livello statale e nelle relazioni stato-enti territoriali, risponde senz’altro a un’esigenza diffusamente sentita. In quest’ottica, molti sostenitori del No da tempo richiedevano il superamento del bicameralismo perfetto e il riaccentramento di competenze legislative con troppa leggerezza attribuite alle regioni nel 2001 (con, conseguente, impennata del contenzioso costituzionale). Il problema è che le misure introdotte dalla riforma, lungi dal migliorare la situazione, la peggiorano ulteriormente.leragionidelno

Com’è stato ben detto, al posto del bicameralismo perfetto avremo un bicameralismo confuso: innanzitutto, per l’incomprensibile composizione del nuovo senato (di 95 membri, più 5 eventualmente nominati per 7 anni dal presidente della repubblica). La nuova Costituzione prevede, contestualmente, che la scelta dei suoi membri spetti ai consigli regionali e agli elettori, ma ciò è impossibile: se scelgono gli elettori, i consigli ratificano; se scelgono i consigli, gli elettori danno mere indicazioni. È anche previsto, con riferimento alla scelta degli elettori, che si debba guardare sia ai voti da loro espressi, sia alla consistenza dei gruppi politici in consiglio regionale: il che non è equivalente (e, anzi, è inconciliabile) dato che tutte le leggi regionali prevedono premi di maggioranza che incrementano, rispetto ai voti effettivamente presi, la consistenza dei gruppi vincitori. Non si capisce, inoltre, come si possano assegnare i senatori a ciascuna regione tenendo conto della consistenza della popolazione delle stesse, visto che ciascuna deve averne almeno 2 e quelli che residuano non sono sufficienti ad applicare il prescritto criterio di proporzionalità. Addirittura, poiché ciascuna regione e provincia autonoma (Trento e Bolzano) dovrà eleggere anche un sindaco, non è chiaro se i sindaci-senatori saranno 21 o 22: la regione Trentino Alto-Adige si aggiunge alle province autonome (come lascia intendere la lettera della disposizione) o le due province autonome ne assorbiranno la competenza (come logica vorrebbe)? Si tenga ancora presente che la durata del nuovo senato non sarà più misurabile per legislature: a scadere non sarà l’organo nel suo complesso, ma i suoi singoli membri, che perderanno la qualità di senatore nel momento in cui verranno meno dalla carica di consigliere regionale o di sindaco (con la conseguenza che vicende locali – come lo scioglimento anticipato di un consiglio regionale – avranno, irragionevolmente, ricadute sugli equilibri politici nazionali).

Perché, poi, in un senato che dovrebbe rappresentante le autonomie territoriali non sia prevista la presenza dei presidenti delle regioni (che pure, per Costituzione, “rappresentano” la regione) è un incomprensibile mistero. Così come misteriosa appare la presenza dei 5 senatori di nomina presidenziale, che, se avrebbero potuto avere un senso alla camera, nulla hanno a che vedere con regioni ed enti locali.

Ulteriore confusione emerge guardando alle competenze del nuovo senato. Com’è noto, oggi c’è un solo modo di fare le leggi: entrambe le camere devono approvare il medesimo testo e, se ciò non avviene nei primi due passaggi, il progetto “rimbalza” da una camera all’altra fino a che non si trova un accordo. I dati degli uffici studi parlamentari sono chiari: la navette interessa il 20-25 per cento delle leggi approvate e, con riferimento a queste, l’intesa viene raggiunta quasi sempre alla terza votazione (molto spesso ciò serve a correggere errori non rilevati in sede di prima votazione). Ciò fa sì che, per approvare una legge, siano necessari in media 100-150 giorni. Sono dati in linea con la produzione legislativa degli altri paesi a noi paragonabili – Francia, Germania, Regno Unito, Spagna – e, d’altronde, che la lentezza del parlamento sia una leggenda è dimostrato dall’enorme numero di leggi presenti nel nostro ordinamento (delle due, l’una: o il parlamento è lento, e allora le leggi sono poche; o il parlamento è veloce, e allora le leggi sono molte). Ora, per superare questa supposta lentezza parlamentare, al posto di un procedimento legislativo la riforma ne introduce dieci. In alcuni casi tutto rimane così com’è (leggi di revisione costituzionale, leggi elettorali, sui referendum, sulla partecipazione dell’Italia all’Ue, sugli enti locali, ecc.). In altri casi la legge viene votata dalla camera e il senato ha solo facoltà di proporre modifiche, su cui la camera deciderà poi in via definitiva: occorre, però, guardare alla materia su cui verterà la legge, perché in alcuni casi il senato potrà intervenire entro 30 giorni, in altri entro 15, in altri ancora entro 10; in alcuni casi dovrà farlo a maggioranza assoluta, in altri a maggioranza semplice; in alcuni casi la camera potrà non tener conto del parere del senato a maggioranza assoluta, in altri a maggioranza semplice. Vi è poi l’ipotesi in cui sia il senato a segnalare alla camera la necessità di approvare una legge, obbligando la camera a intervenire entro un dato termine. Le leggi elettorali potranno essere impugnate in via preventiva innanzi alla corte costituzionale. Le leggi di conversione dei decreti-legge seguiranno un ulteriore specifico iter. Ancora diverso e peculiare sarà quello per le leggi di iniziativa popolare. Le leggi dichiarate “urgenti” seguiranno tempistiche dimezzate. Insomma: una Babele. Tanto più che nella nostra esperienza parlamentare le leggi non vertono quasi mai su una sola materia, ma su una pluralità: quale procedura seguire in tali casi? La nuova Costituzione prevede che decideranno i presidenti delle camere di comune accordo. E se non si accordano? L’organo che si riterrà leso nelle proprie prerogative farà ricorso alla corte costituzionale. E questa sarebbe una semplificazione?

Le competenze regionali

Quanto alla ridefinizione delle competenze regionali, va senz’altro apprezzata la riattribuzione al centro di settori aventi rilievo strategico nazionale (energia, infrastrutture, trasporti, comunicazione, sicurezza del lavoro, ecc.), ma non si possono nascondere due elementi di ambiguità: la pseudo-eliminazione delle competenze concorrenti (quelle in cui lo stato detta i principi e le regioni il dettaglio; ma con la riforma lo stato avrebbe la competenza a dettare “norme generali” in varie materie: e cosa sono le norme generali se non i principi?) e lo sdoppiamento delle competenze residuali regionali in nominate e innominate (c’è qualche differenza? Perché alcune sono state individuate e altre no?). Facile immaginare, anche qui, una nuova ondata di contenzioso costituzionale. Lascia sorpresi, poi, il potenziamento del “regionalismo differenziato”, vale a dire della clausola (introdotta nel 2001, ma mai utilizzata) per la quale le singole regioni ordinarie possono chiedere ulteriori competenze qualora si dimostrino interessate a esercitarle. Ciò potrà avvenire in materia di giustizia, politiche sociali, istruzione, commercio con l’estero, beni culturali, ambiente, governo del territorio; ma perché non approfittarne per eliminare le regioni a statuto speciale (spesso sacche di inaccettabili privilegi), che invece vengono ulteriormente potenziate?

Il federalismo sanitario

Viviamo in un paese in cui il “federalismo sanitario” ha prodotto regioni in cui la speranza di vita media alla nascita è inferiore di 4 anni rispetto alle altre: vogliamo che tali disparità si riproducano anche in altri ambiti? Va, infine, ancora segnalata l’introduzione della “clausola di supremazia”, in nome della quale lo stato, riscontrando un preminente interesse nazionale, può avocare a sé competenze altrimenti attribuite alle regioni. È una cosa positiva, che la revisione del Titolo V nel 2001 aveva inopinatamente eliminato. Ma con una significativa differenza: nella Costituzione originaria, la responsabilità di accentrare la competenza gravava sul parlamento (organo espressione di maggioranza e opposizione: dunque di garanzia); con la riforma, si sposta in capo al governo (organo espressione della sola maggioranza: dunque di parte).ospedalenostrofiglio-600

E qui veniamo ai profili della revisione che si pongono, in modo purtroppo efficace, questa volta, obiettivi non condivisibili. Se c’è, infatti, un tratto che connota l’impianto della revisione è la marcata tendenza all’accentramento del potere nelle mani del governo e, al suo interno, del presidente del consiglio.

Intanto, solo più la camera darà la fiducia al governo. Ma la camera è eletta con una legge che assegna automaticamente 340 seggi (ben oltre la maggioranza assoluta di 316) al partito che al primo turno raggiunge il 40 per cento dei suffragi o che, quale che sia la percentuale di voti effettivamente raccolta al primo turno (anche il 10 per cento, in ipotesi), vince il ballottaggio: così, il voto di fiducia diventa una formalità, tanto più che le varie liste dovranno preventivamente indicare il nome del loro “capo” (il linguaggio è indicativo: diceva Kelsen che, in ultima istanza, ciò che connota la democrazia è l’assenza di capi). Di fatto, gli elettori eleggeranno direttamente il presidente del consiglio, svuotando di significato il conferimento dell’incarico da parte del presidente della repubblica e il voto parlamentare di fiducia. Inoltre, la gran parte dei deputati (il 60-70 per cento) sarà non eletta, ma nominata dai partiti, grazie agli effetti di capilista bloccati e candidature plurime. Si tratterà, dunque, di fedelissimi del capo, a ulteriore rafforzamento della presa del governo sul parlamento. Si badi che un assetto del genere non avrebbe eguali al mondo: negli altri paesi mai vi è certezza che le elezioni producano una maggioranza assoluta.

È possibile, a volte molto probabile; mai certo: nemmeno nell’Inghilterra dell’uninominale o nella Francia del doppio turno (e tanto meno negli Stati Uniti a sistema presidenziale). Precondizione perché vi sia una stabile maggioranza è la presenza di una forza politica (almeno tendenzialmente) maggioritaria nella società. Se la società è divisa, diviso è il parlamento.

La saldezza della “presa” governativa sul parlamento emerge anche dall’introduzione del “voto a data certa”. Significa che il governo può dichiarare un proprio disegno di legge “essenziale per l’attuazione del programma”: dopodiché, la camera deve pronunciarsi, con limitato potere di emendamento, entro 70 giorni. Risultato? Non solo il governo sarà “padrone” del contenuto delle leggi (già oggi è largamente così, attraverso vari strumenti che la riforma non elimina: abuso dei decreti-legge, maxi-emendamenti, proliferare della fiducia, deleghe in bianco, ecc.), ma addirittura assumerà il controllo dell’agenda, e dunque dell’attività, parlamentare.

Ulteriore schiacciamento del ruolo delle minoranze emerge dalla lettura delle nuove disposizioni costituzionali sugli istituti di garanzia. Il presidente della repubblica continuerà a essere eletto dal parlamento in seduta comune (composto da 730 membri), ma con nuove maggioranze: nei primi tre scrutini serviranno i 2/3 dei componenti, dal quarto si scende ai 3/5 dei componenti, dal settimo ai 3/5 dei votanti. Col che cambia tutto, perché, posto che gli organi costituzionali operano come minimo in presenza della metà più uno degli aventi diritto, nel caso di specie saranno sufficienti i voti dei 3/5 di 366, vale a dire 220 consensi: il presidente – rappresentante dell’unità nazionale – potrà essere eletto da una minoranza di parlamentari! consiglio-superiore-della-magistraturaLo stesso vale per i membri “laici” del Csm, mentre i cinque giudici della corte costituzionale di indicazione parlamentare saranno eletti dalle due camere separatamente, producendo l’assurdo di un organo di 630 membri (la camera) che elegge tre giudici e di un organo di 100 membri (il senato) che ne elegge due. Le opposizioni saranno, inoltre, marginalizzate in decisioni fondamentali quali la dichiarazione di guerra e l’amnistia e l’indulto. Addirittura lo statuto delle minoranze, pur previsto dalla nuova Costituzione, è rinviato a future modifiche dei regolamenti parlamentari: vale a dire, a decisioni prese … dalla maggioranza!

Quel che emerge dalla riforma, in conclusione, è un inedito modello istituzionale: il premierato assoluto, che già Leopoldo Elia denunciava come incompatibile con il costituzionalismo. E non si dica che tutto ciò riguarderà solo la parte II della Costituzione. Al contrario, ne risulterà coinvolta anche la parte I, perché l’attuazione dei diritti dipende dalle decisioni prese, o non prese, dal parlamento (basti pensare a quanta influenza negativa sta avendo l’introduzione, nella parte II, appunto, dell’equilibrio di bilancio).

francesco.pallante@unito.it

F Pallante insegna diritto costituzionale all’Università di Torino

Le ragioni del Sì alla revisione costituzionale – Non c’è forse tutto, ma c’è molto di quel che serve

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