Luca Scuccimarra – Proteggere l’umanità

Responsabilità di proteggere?

recensione di Pier Paolo Portinaro

dal numero di giugno 2017

Luca Scuccimarra
PROTEGGERE L’UMANITÀ
Sovranità e diritti umani nell’epoca globale
pp. 267, € 25
il Mulino, Bologna 2016

Luca Scuccimarra - Proteggere l'umanitaTra le brecce che si sono aperte nell’intelaiatura normativa del sistema internazionale dopo la fine della stagione (prossima a ritornare?) della guerra fredda va annoverata la messa in discussione del principio di non intervento. Nell’età classica del diritto internazionale – quella, per intenderci, studiata da Martti Koskenniemi in Il mite civilizzatore delle nazioni (Laterza 2012) –, la reticenza a mettere in discussione quel dogma dello ius gentium, corollario del principio di sovranità, era stata assai forte. Anche in contesto democratico John Stuart Mill aveva argomentato che le interferenze straniere privano i popoli di quelle qualità politiche che solo l’esercizio del potere di autodeterminazione è in grado di suscitare. Ancora a fine Novecento, un autore sensibile alla questione dei diritti umani come John Rawls, pur ammettendo la liceità di un “intervento di forza a difesa dei diritti umani” quando le loro violazioni siano “di rilievo eccezionale” e la società che li commette si mostri “insensibile all’imposizione di sanzioni”, annoverava, in The Law of Peoples, fra i princìpi restrittivi della condotta di guerra, il dovere di “rispettare, per quanto possibile, i diritti umani dei membri della controparte, sia civili sia militari”, dal che discendeva una sostanziale limitazione del diritto d’intervento. Ma a partire dagli anni novanta un nuovo concetto ha fatto il suo ingresso nell’arena internazionale: responsibility to protect, aggiungendo un altro acronimo (R2P) nel fantasmagorico universo delle sigle, dietro la cui maschera, non sempre a torto, i più scettici sospettano il vuoto. A dire il vero anche in questo concetto si cela una buona porzione di wishful thinking; oltre al quale stanno però due decenni di storia, di cui il primo, gli anni novanta del secolo scorso, è stato addirittura definito “età dell’oro dell’interventismo umanitario”. Alcune cose sono effettivamente cambiate, a partire dalla risoluzione n. 688/1991, con la quale il consiglio di sicurezza dell’Onu intimava al governo iracheno di porre fine alla repressione dell’insurrezione curda e si appellava agli stati membri perché si attivassero a tutela e sostegno delle popolazioni perseguitate. A questa risoluzione molte altre, contenenti l’autorizzazione all’uso della forza militare, e andando oltre le misure di peace-keeping e peace-enforcing fino a quel momento messe in atto dall’Onu nella sua quarantennale storia, ne sarebbero seguite, in risposta a emergenze umanitarie in Somalia, in Ruanda, in Bosnia, a Timor Est. Così, nell’arco di vent’anni la letteratura internazionale sul tema è esplosa e a Luca Scuccimarra va il merito di offrirne con questo lavoro una sintesi circostanziata, a un tempo equilibrata e critica. Forse con qualche speranza di troppo, e con qualche sopravvalutazione della reale incidenza dei dibattiti teorici, ma con la chiara percezione dell’“instabilità decisionale ed operativa prodotta in questo ambito dall’indistricabile intreccio fra retorica umanitaria e calcolo utilitaristico”.

Il libro  di Scuccimarra dà conto di come il recente dibattito sulla R2P si sia retto sugli assunti di un modello poggiante su alcuni capisaldi, cioè: che gli stati concordino sul fatto di avere una responsabilità di proteggere i loro cittadini; sul fatto che tale responsabilità insorga in presenza di quattro fattispecie di crimini internazionali: genocidio, pulizia etnica, crimini di guerra e crimini contro l’umanità; che l’obbligo di protezione comporti un impegno da parte di tutti gli stati a prevenire il verificarsi di quei crimini nel loro territorio; che la comunità internazionale possa intraprendere un’azione collettiva, sanzionata dal consiglio di sicurezza, qualora uno stato non ottemperi a tale obbligo; configurando questo intervento coercitivo un mandato politico per gli stati membri, non basato però su soglie prestabilite o automatismi. E illustra le modalità dei vari interventi e come a militare contro di essi siano ragioni di ordine pragmatico: la difficoltà di definire una strategia d’uscita prima d’intervenire; la difficoltà a garantire un minimo di stabilità e controllo nei diversi ambiti della costruzione statale in società di cui mal si conoscono le logiche; la resistenza degli attori terzi a impegnarsi durevolmente nella ricostruzione.

Guerra post-nazionale

Scuccimarra argomenta come la “guerra umanitaria” sia assurta, assieme alla “guerra contro il terrorismo”, “a prototipo di una nuova e ambivalente forma di “guerra post-nazionale”. È a partire dalla percezione di quest’ambivalenza che si è progressivamente rafforzata, e ne vengono qui enunciate dettagliatamente le ragioni, la critica del paradigma umanitario. Una volta deliberato l’intervento, la delegittimazione può rapidamente seguire, qualora i danni e i costi per chi interviene, per chi ha provocato l’intervento e per gli innocenti coinvolti, diventino troppo alti. A fronte di queste difficoltà, non ha tardato a coagularsi, contro il partito degli interventisti, un eterogeneo schieramento di moralisti e realisti. I primi, muovendo dalla considerazione che un posteriore atto immorale non è assolto se commesso in reazione a un atto di eguale natura della controparte (i bombardamenti di Amburgo e Dresda del 1945, o quelli di Hiroshima e Nagasaki, restano crimini di guerra nonostante quanto li aveva preceduti), sostengono che, elevata a imperativo morale assoluto, la norma, secondo cui non è mai lecito uccidere innocenti, conduce di fatto a un divieto di qualsiasi intervento umanitario. Qui si evidenzia un tragico dilemma: l’intervento militare a tutela dei diritti umani non può evitare di violarli drammaticamente. I realisti d’altro canto sono sempre pronti a vedere dietro la copertura ideologica di fraudolenti argomenti morali il prepotente irrompere di interessi economici e di potenza.

Al concetto di responsibility to protect non ha tardato ad affiancarsi nel dibattito quello di responsibility to rebuild. Solo se segue la costruzione della democrazia l’intervento risulta, nel giudizio dei più, legittimo: l’instaurazione di un regime ibrido non è sufficiente. Ma qui sta la maggiore difficoltà dell’impresa. Da un lato, per dare legittimità al processo di autodeterminazione democratica le potenze occupanti dovrebbero ritirarsi il più presto possibile. Dall’altro, però, il fatto che all’indomani di una guerra civile o di un genocidio non ci sia un popolo, ma gruppi etnici, religiosi, politici tra loro ostili rende praticamente impossibile quel processo senza la tutela invadente di un occupante. Comune a tutte le missioni è la circostanza che per il consolidamento della pace si è perseguita una strategia di rapida democratizzazione e liberalizzazione: obiettivo condivisibile, ma la cui forzata accelerazione ha conseguenze destabilizzanti, nella misura in cui contravviene all’imperativo di Security first. Occorre prima consolidare l’apparato istituzionale sotto il profilo della neutralizzazione delle ostilità. Per avere successo, gli attori internazionali devono in ogni caso prendere congedo dall’idea che stati sconvolti dalla guerra si lascino rapidamente ricostituire. Anche i fautori più benintezionati di un interventismo umanitario senza altri fini sono costretti a riconoscere che i vari tentativi di State-building conseguenti a interventi militari volti a esportare la democrazia hanno dato a tutt’oggi esiti sconfortanti.

pierpaolo.portinaro@unito.it

P P Portinaro insegna filosofia politica all’Università di Torino