Stefano Liberti – I signori del cibo

Soia, maiali, tonno e pomodori: il quadrilatero infernale

recensione di Giuseppe Mastruzzo

dal numero di gennaio 2017

Stefano Liberti
I SIGNORI DEL CIBO
Viaggio nell’industria alimentare che sta distruggendo il pianeta
pp. 327, € 19
minimum fax, Roma 2016

LibertiChe cos’è una locusta? Ce lo dicono i libri di entomologia, ma anche quelli di storia. È un insetto salterino e famelico, presente un po’ ovunque nel mondo e sempre dannoso per le agricolture, ed è perciò che in tante culture e nazioni i suoi salti sono storicamente associati a grandi disastri alimentari. Ma che cos’è un’azienda-locusta? Ce lo dice l’ultimo libro di Stefano Liberti: è una multinazionale foriera anch’essa di grandi disastri alimentari, interessata al profitto subito, e immemore di un futuro possibile. Estratta la linfa vitale e culturale di un territorio, salta ad attaccare quello successivo. Come il freddo invadente del Marcovaldo di Calvino, si getta oggi sulle campagne del mondo, desertificando il nostro domani. Per farci intendere come funziona questo processo di desertificazione agricola ma anche culturale Liberti ci parla di quattro ingredienti tra i più comuni dell’offerta alimentare globalizzata, carne di maiale, soia, tonno e pomodoro, che ritroviamo ovunque, dagli hamburger (suino) ai preparati per vegetariani (soia), da salse e sughi (pomodoro) allo scatolame (tonno). È un viaggio che parte dai 700 milioni di maiali macellati ogni anno in Cina per il mercato nazionale, segno grasso e tangibile del recente benessere cinese, mezzo maiale ad abitante, la metà dei maiali del mondo. Ma dalla Cina, con buona pace del chilometro zero, le locuste saltano in Brasile, nel Mato Grosso, per la raccolta di quella soia geneticamente modificata che ingrasserà i maiali cinesi: 7 milioni di ettari di monocultura (un paio di volte la superficie dell’Olanda) per nutrire con 70-80 milioni di tonnellate di soia amazzonica 700 milioni di sino-suini. È così che questo esercito di maiali (cinesi ma anche nordamericani ed europei) ha rotto definitivamente gli equilibri sociali ed ambientali di intere regioni del sud del mondo. E il salto intercontinentale delle nostre locuste è seguito e sostenuto dalle cavallette della finanza globale, i campioni di quel libero mercato sempre più monopolizzato da pochi grandi marchi multinazionali. Così Goldman Sachs con la crisi ha spostato parte delle sue attività dai mutui sub-prime e dalle filiere energetiche a quelle agro-alimentari, corrompendo dal 2008 le dinamiche dei prezzi di molti generi di prima necessità, e arrivando tra l’altro a possedere a un certo punto il 25 per cento della holding cinese Shuanghui, la maggiore azienda mondiale di trasformazione di carne di maiale, che nel 2013 ha comprato la sua rivale più accanita, l’americana Smithfield (mentre altre banche d’affari si sono rivolte a Cargill, che traffica soprattutto in soia – amazzonica? – e cereali, e il cui attuale fatturato annuo è quattro volte il prodotto interno lordo della Bolivia).

Tuttavia, non è solo il grande capitale finanziario a soccorrere il salto delle locuste, ci dice Liberti, ma anche il nostro piccolo carrello della spesa, che riempiamo di braciole in offerta (anche i poveri sono grassi, nell’american dream, e spesso obesi), e scatolette di tonno 3×2. Perché nell’attraversare l’oceano di quella globalizzazione che unisce il verro e la soia, Liberti ci mostra la cattura di milioni di tonni da parte di mastodontici pescherecci dotati persino di radar per individuare i banchi di pesce, che lasciano nella loro scia i cadaveri di innumerevoli altri pesci inutili per l’inscatolamento. E il tonno prima congelato e poi più volte bollito si vendica, e perde completamente il suo sapore ben prima di essere intrappolato nel tondo della scatoletta che ci ostiniamo ad acquistare in offerta. Infine, passando per l’Italia del caporalato il nostro viaggio con Liberti ci riporta al punto di partenza, in Cina, dove contempliamo vaste distese di pomodori la cui polpa si farà concentrato e ketchup color sangue. Perché con i maiali e i tonni nel nostro viaggio al supermercato abbiamo asservito e macellato campesinos e piccoli pescatori, indios dell’Amazzonia e lavoratori-schiavi ghanesi in Puglia.

Il vero prezzo della globalizzazione alimentare

Com’è possibile che abbiamo barattato i sapori, e l’arte di produrli e di gustarli, per uno sconto del 30 per cento? Siamo anche noi gli artefici dell’inarrestabile catastrofe ecologica e culturale presente. La responsabilità sociale e ambientale non riguarda soltanto chi produce, ma anche chi consuma. Leggendo questo libro ci rendiamo conto di come non solo la riproposizione della tradizione gastronomica nostrana ma anche l’esplorazione della multiculturalità del gusto a scopi commerciali nascondano il vero prezzo della globalizzazione. Infatti, i modi odierni del nostro consumo alimentare, largamente proposti e guidati dalla grande distribuzione e dai grandi marchi multinazionali, hanno effetti irreversibili sulla fauna ittica degli oceani, e devastanti sono gli esiti sulle foreste africane e amazzoniche dell’accesso recente di centinaia di milioni di consumatori cinesi (ma da più tempo anche europei e nordamericani) alle proteine della carne di maiale. Per provarcelo, Liberti ha speso ben due anni per verificare in prima persona tutte le diverse tappe della filiera produttiva e distributiva dei quattro alimenti di cui sopra.

Viaggiando con Liberti scopriamo che i salti da locusta del grande capitale finanziario sono spesso agevolati dai governi, alimento per alimento. Così la concentrazione a favore di poche gigantesche imprese della produzione e distribuzione della carne di maiale in Cina (ma anche negli Stati Uniti, l’altro grande produttore visitato da Liberti nel suo viaggio) è frutto di provvedimenti normativi, sgravi fiscali e prestiti, tesi a favorire l’aumento del consumo interno e dell’esportazione verso il mercato nordamericano; l’attacco alla biodiversità dell’Amazzonia è facilitato dall’assenza di misure di legge contro la deforestazione e l’espansione della monocoltura della soia; l’irreversibile impoverimento dell’ecosistema marino del Senegal è accelerato dalle politiche degli stati asiatici ma soprattutto dell’Unione europea (che ha acquistato diritti di pesca un po’ dappertutto in Africa occidentale), così collaborando con l’azione nefasta delle grandi società dell’ittica globale, come il Gruppo Bolton, italiano (Rio Mare, Palmera, e almeno altri cinquanta marchi alimentari), Thai Union, e la coreana Dongwon F&B. E infine i pomodori: alla scoperta delle fonti del ketchup della Heinz, Liberti ci porta dagli Uiguri, un popolo di lingua turca e religione musulmana che vive in Xinjang, una regione a cui si devono i due terzi della produzione del maggiore esportatore mondiale di pomodori e derivati del pomodoro, la Cina. E dallo Xinjiang Liberti ci riporta nella patria del San Marzano, perché è proprio al porto di Salerno che arrivano i sino-pomodori ad uso degli imprenditori del San Marzano dop (!) dell’agro sarnese-nocerino. Ed è seguendo uno di questi imprenditori che ci ritroviamo con Liberti in un mercato di Accra, nel Ghana, dove il pomodoro uiguro è infine venduto e consumato come salsa “made in Italy”. E dal Ghana torniamo accompagnando gli ex-contadini e pescatori dell’Africa Occidentale, ormai rovinati, nel loro viaggio attraverso il Sahara ed il Mediterraneo, per finire nei ghetti dei raccoglitori-schiavi delle campagne foggiane. Qui si chiude il cerchio della globalizzazione e del grande capitale alimentare: è proprio il contadino ghanese a raccogliere quel pomodoro che sarà esportato nel suo paese azzerandone la produzione agricola locale e costringendo i suoi fratelli a raggiungerlo nel ghetto pugliese.

Ma nel suo viaggio Liberti ci parla anche di chi resiste al disastro, di note di speranza nel futuro, come ad esempio quella delle sei famiglie di piccoli pescatori che ancora vivono a San Diego, in California, pescando nel rispetto del mare e della sua biodiversità. Non sono i superstiti di un mondo che fu, suggerisce Liberti, ma dei pionieri dell’unico futuro sostenibile.

gmastruzzo@iuc.torino.it

G Mastruzzo è direttore dello Iuc di Torino