La mitragliata di riforme, delitto perfetto dell’università pubblica italiana

Un lessico di resistenza contro le insidie della bêtise

di Giuseppe Boccignone

dal numero di settembre 2017

Federico Bertoni - UniversitalyUniversità italiana, anno 2017. Una domanda tranchant: “Perché un luogo di elaborazione e di trasmissione della conoscenza diventa uno straordinario concentrato di stupidità, in cui l’automazione frenetica delle pratiche svuota il significato delle azioni quotidiane?”. È l’incipit concettuale di Universitaly. La cultura in scatola (pp. 150, € 15, Laterza, Bari-Roma 2016) scritto da Federico Bertoni, docente di teoria della letteratura presso l’Università di Bologna. Da cui scaturisce l’appassionato e tagliente monologo di “un insider, che descrive un ambiente dall’interno, con il potere di certificazione del testimone oculare e la garanzia emotiva dell’esperienza vissuta”. Racconto che via via si fa saggio di critica culturale: sull’università e sulla società. Per dare un senso alla mutazione antropologica dell’istituzione universitaria avvenuta negli ultimi vent’anni: sottofinanziata e umiliata nelle pratiche quotidiane, vituperata dai media, costretta a rincorrere e scimmiottare estranianti modelli aziendali. Bertoni ha dalla sua il mestiere, e ne usa in modo arguto e raffinato tutti gli strumenti per focalizzare un tema complesso da un punto di vista laterale: lo scarto tra le parole e le cose. Il divorzio fra le procedure formali e l’esperienza di un docente nella prassi quotidiana (resa magistralmente nel primo capitolo, La giornata di un professore).
Le parole non sono pietre ma armi, avverte Bertoni: merito, eccellenza e valutazione sono le “parole magiche” impugnate per dissolvere in “consumer oriented corporation” quel che resta dell’universitas societas magistrorum discipulorumque.
Le “parole magiche” vengono messe sotto la lente filologica e linguistica: la macchina ideologica che le propone smontata pezzo per pezzo, fino a disvelare il meccanismo che consente a verità di seconda mano e luoghi comuni di divenire la forma stessa del nostro pensiero. È la bêtise flaubertiana, la stupidità intelligente e insidiosa che muta le parole in segni vuoti senza referente, e le usa per manipolare la complessità del reale a seconda degli interessi del momento (e che, per inciso, Arbasino nel suo ritratto di Flaubert traduceva tout court con “stronzaggine”). La bêtise che alimenta – e qui Bertoni ricorre a Foucault – una microfisica del potere, fatta di “pratiche quotidiane di cui siamo al tempo stesso attori, vittime e complici”. Parole a cui contrapporre altre parole: cultura, conoscenza, educazione, comunità, persona, democrazia.

Juan Carlos De Martin - Università futuraUn lessico “di resistenza” condiviso anche da Università futura. Tra democrazia e bit (pp. 236, € 16, Codice, Torino 2017) di Juan Carlos De Martin, docente di rivoluzione digitale presso il Politecnico di Torino. Se Bertoni procede dal particolare al generale, De Martin affronta la questione in modo opposto. Dopo aver ripercorso storia e motivazioni dell’istituzione universitaria, identifica le cinque sfide globali del ventunesimo secolo: democrazia, ambiente, tecnologia, economia e geopolitica. A cui aggiunge quella, non banale, di garantire un futuro di libertà e prosperità al nostro paese. Così, la domanda cruciale: quale tipo di sistema universitario vogliamo per poter rispondere a tali sfide? Nel dilagare del nulla, una risposta alta: università per la persona, per il sapere, per la società democratica. Entrambi registrano il tramontare dell’idea cogente per l’università tradizionale, la cultura, e il dissolvimento che ne consegue. Concordano sulle modalità di realizzazione, per dirla con Bertoni, del “delitto perfetto”. Esecutori: governi di “destra” e di “sinistra” degli ultimi vent’anni. Arma: un rosario di riforme, cinicamente varate “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”. Poi, la sequenza micidiale. Novembre 1999, riforma Berlinguer (nota come “3+2”). Stravolge ordinamenti didattici e struttura di fondo dell’università italiana: primo ciclo di tre anni, professionalizzante, concluso dalla laurea; secondo ciclo di due anni, la laurea specialistica (poi, magistrale), a cui demandare l’approfondimento della teoria e (eventualmente) l’attività di ricerca. Si confezionano, con gergo economicistico, “crediti” e “debiti” formativi per lo studente. Estate 2008, l. 133: dà la stura alla più imponente azione della storia repubblicana di definanziamento dell’università (“quando Tremonti spergiurava che non c’era nessuna crisi economica in atto, e nemmeno all’orizzonte”, chiosa Bertoni). Segue massiccia campagna di stampa costruita su luoghi comuni (tutti facilmente smentibili, come mostrano i due autori): troppi atenei ma pochi nelle classifiche internazionali, troppi docenti, livelli di ricerca inadeguati, insufficiente rapporto tra università e lavoro, lauree inutili; e poi: sprechi, concorsi truccati, scandali e scandalucci. È lo storytelling (ancora parole): necessario per spianare il terreno, nel 2010, alla l. n. 240, la “epocale” riforma Gelmini. Presentata come “riforma antibaronale”, favorisce un’organizzazione verticistica; nel “combinato disposto” con i tagli finanziari amplifica la precarizzazione; conferisce pieni poteri all’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca, peraltro insediata dal ministro Mussi): un direttorio implacabile nella produzione minuziosa di “decine di acronimi e centinaia e centinaia di pagine di regole” e nella promozione dell’uso spregiudicato di indicatori “oggettivi”: per valutare strutture e docenti. E tutto, sottolineano, è avvenuto senza alcun vero momento di collegialità, deliberazione, partecipazione e trasparenza: di democrazia, per farla breve. All’insegna della sentenza thatcheriana, “There is no alternative”, non c’è alternativa.

Mandanti e movente? Questione complessa, non imputabile a qualche improbabile complotto. Gli autori seguono una traccia comune: il fiume carsico che alimenta l’evoluzione economica, e ideologica, globale delle società occidentali: il neoliberismo. Per definire il neoliberismo di cui parlano conviene ritornare a Foucault: una razionalità specifica, storicamente localizzata, che guida le condotte individuali, struttura le relazioni umane, plasma le soggettività. Un principio e un modello: concorrenza e impresa. Ogni attività, anche pubblica, deve assoggettarsi a un regime di concorrenza, e deve organizzarsi come un’impresa.
Fa bene De Martin a svolgere un’interessante analisi delle forme organizzative: la coercitiva (esercito); l’utilitaristica (azienda o impresa); la normativa (o volontaria) a cui si aderisce perché se ne condividono fini e ideali, come scuole, partiti, chiese e associazioni. Dimostra che l’università è, nella sua essenza, normativa. Perché, argomenta Bertoni, molte delle persone che lavorano all’università (in senso esteso: professori e studenti), hanno maturato la scelta condividendone obiettivi sociali ed ethos, non per il “salario” (stipendio o borse di studio) che ne ricevono.
Ma accettato quest’assunto fondamentale, ne consegue una critica radicale alle pratiche attuali: lo studente consumatore/cliente che fa shopping tra i vari atenei; l’offerta formativa (ai clienti) in funzione della domanda formulata dal “mondo del lavoro”; il bazar globale di università in concorrenza fra di loro, impegnate in operazioni di marketing, e monitorate da indicatori (“oggettivi”) della soddisfazione dei clienti (customer care) e utili a scalare i ranking (con risultati poi strombazzati dai media); la quotidiana gogna docimologica e burocratica su docenti, dipartimenti e scuole di dottorato. In breve: l’equazione perversa tra accountability e accounting, responsabilità e contabilità. Ma l’equazione, sostengono entrambi, non è innocua e rischia di mutare geneticamente (se già non è mutata irreversibilmente) la natura (normativa) dell’universitas: comunità umana e intellettuale, anzitutto, e nel contempo luogo fisico deputato a ospitare persone che hanno deciso, idealmente, usando le parole di De Martin, “di dedicare la propria vita (i professori) o alcuni anni della loro vita (gli studenti) alla conoscenza”. Bertoni sancisce il tramonto tragico del modello ideato da von Humboldt (1810): fondato sull’unità tra insegnamento e ricerca (Bildung durch Wissenschaft), sull’autogoverno, sulla libertà accademica, su studenti consapevoli della natura problematica della conoscenza. De Martin lo assume come punto di (ri)partenza: un’università, ancorata nella costituzione, che sia culla di futuri cittadini e di democrazia. Resta da vedere se questa via (forse l’unica) sia ancora percorribile: la storia, si sa, non è incline a fare sconti.
In ultima battuta, Bertoni ci consegna un manuale minimo di sopravvivenza, un decalogo di “pratiche di resistenza” da contrapporre alla bêtise, per “ridisegnare la scena educativa, costruire una comunità del dissenso”. De Martin invece, pur escludendo di voler proporre un piano di riforma, traccia linee guida per ricondurre l’università al proprio ruolo e alla propria natura. Ne raccomandiamo la lettura a un futuro presidente del consiglio (o ministro, se preferite). Per provare a costruire un’idea di università piuttosto che, plagiando il titolo di un noto pamphlet di Maurizio Ferraris, un’Ikea di università.

giuseppe.boccignone@unimi.it

G. Boccignone insegna interazione naturale e modelli di computazione affettiva all’Università di Milano