Le metamorfosi dello spionaggio post guerra fredda

Cinema e serie TV: nel regno della paranoia la suspense è archeologica

di Luca Malavasi

dal numero di aprile 2016

Vecchio, inutile, sorpassato: nell’ultimo capitolo della saga di James Bond (Spectre, 2015, cfr. “L’Indice” 2015, n. 12), il neonominato capo dei servizi segreti, Max Debingh (nome in codice “C”) non perde tempo e diplomazia per dissimulare il suo disinteresse nei confronti del programma “00” e, più in generale, delle spie in carne e ossa, superate dai tempi e dalla tecnologia. Adesso, mescolando fondi pubblici e privati, C sogna di dare vita a una specie di doppio digitale del mondo, un fantasma capace di sorvegliare e processare, controllare e proteggere costantemente (si veda il libro di Jonathan Crary 24/7 Il capitalismo all’attacco del sonno, pp. 134, € 18, Einaudi, Torino 2015). Un progetto alternativo alla tradizione dell’agente segreto sul campo (“one man in the field”) dall’emblematico titolo “I nove occhi”, che vorrebbe segnare anche il passaggio definitivo dalla licenza di uccidere a quella di spiare (e poi, magari, uccidere).

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Come gli altri tre capitoli della stagione Daniel Craig, Spectre è, piuttosto apertamente, una nuova avventura di James Bond e, insieme, un film sulla possibilità di mettere in scena, oggi, una nuova avventura di James Bond. Nel 2006 il cambio d’attore – parallelo all’arrivo di Paul Haggis in sceneggiatura accanto a Neal Purvis – ha coinciso, non a caso, con la realizzazione di Casino Royale, un reboot che ha riportato la saga all’inizio, all’atto di nascita dell’eroe inventato da Ian Fleming nei primi anni cinquanta, inaugurando al tempo stesso un subplot, sviluppato poi di film in film, tutto centrato sulla verifica della tenuta fisica e psicologica (e cioè storica e mitologica) del personaggio. Come a chiedersi se oggi, nella società della sorveglianza orwelliana realizzata o, per dirla con Byung-Chul Han (il filosofo più apocalittico e lucido di tutti) del panottico aprospettico, hanno ancora diritto di cittadinanza figure discrete, individuali e individuate, fisicamente limitate, come l’agente segreto o la spia per compiere operazioni che i sistemi di sorveglianza e il “potere performativo” dell’informatica possono svolgere in modo molto più economico, pulito, silenzioso. E la questione, come s’intuisce, tocca direttamente non solo il corpo di Bond ma anche, più in generale, quello di un intero immaginario culturale.

Il ritorno della figura della spia al cinema e nelle serie TV

Al tempo stesso, e al di là della risposta (efficace e cavalleresca) che la recente filmografia bondiana è riuscita a dare alla questione storica e alla propria ragion d’essere, uno dei fenomeni più appariscenti degli ultimi anni è proprio il ritorno, tra cinema e televisione, della figura della spia e/o dell’agente segreto e, insieme, in molti casi, dei contesti storici e culturali di cui queste figure sono state protagoniste: primo tra tutti quello della guerra fredda. Un ritorno da intendere, in primo luogo, proprio come la reazione fisica (e forse politica), non priva di un coefficiente di paura nei confronti dello “sciame digitale”, alla contemporanea società panottica che oblitera costantemente la propria natura spionistica, sostituendo corpi, avventure e volti con protesi, azioni programmate e flussi di bigdata; quasi un monito implicito nei confronti dei cittadini digitali che, travolti dall’iper-comunicazione e dal costante invito al racconto e all’esposizione del sé (tra museo e pornografia), finiscono per dimenticare troppo facilmente (ma non colpevolmente: è il principio della società della trasparenza) che l’attuale regime del controllo “si realizza là dove il suo soggetto si denuda non in conseguenza di una costrizione esterna, ma di un bisogno auto-prodotto” (Byung-Chul Han, La società della trasparenza, Nottetempo 2015). Ancora: in questa produzione, accanto a un nostalgico commiato, più o meno esplicito, da un immaginario, il ritorno della spia – soprattutto quando proiettato nel contesto contemporaneo – finisce spesso per caricarsi di un valore “meta”: funziona, cioè, come strumento di analisi del principio spionistico inscritto nella società contemporanea. Spie che spiano lo spiare, insomma.

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È quanto accade in London Spy, miniserie britannica in cinque puntate trasmessa dalla Bbc nel 2015 e ideata da Tom Rob Smith, l’autore del celebre Bambino 44 (diventato un film nel 2015), primo capitolo di una trilogia romanzesca ambientata nella Russia di Stalin. La breve relazione che unisce lo spiantato Danny al ricco e misterioso Alex (bruscamente conclusa dalla morte di quest’ultimo che, si scoprirà, lavorava per il Secret Intelligence Service), scoperchia un mondo di cui Danny, sempre in ritardo sugli eventi, finisce per intravvedere non tanto la trama ma il funzionamento (con l’aiuto di una spia vecchio stile, Scottie): un mondo fondato sull’invisibilità e, esemplarmente, sull’impossibilità di ordinare in senso lineare gli eventi, perché il panottico è, appunto, aprospettico; non c’è un punto da cui Danny possa vedere, mentre il suo tentativo di soluzione del mistero che circonda la vita e la morte di Alex è costantemente illuminato e sorvegliato da ogni lato, dappertutto e da ciascuno. Solo tornando indietro nel tempo e nella storia (per l’esattezza al 1957), come fa Spielberg in Il ponte delle spie (2015), è possibile ritrovare una reciprocità di sguardo, una timeline (che anzi diventa un conto alla rovescia, fino a generare un sentimento puro di suspense, là dove, in London Spy, non può che esservi paranoia) e una topografia: così, il film può finire, come un western, con lo scambio frontale della spia sovietica, Rudolf Abel, con il pilota americano Francis Gary Powers, presso il Ponte di Glienicke, tra Berlino Ovest e Potsdam, statunitensi da una parte, sovietici dall’altra. Ma, più di tutto, l’artefice della soluzione (un avvocato newyorkese) può essere socialmente riconosciuto: nel finale, su un tram affollato, mentre torna a casa; riconosciuto, additato, silenziosamente ringraziato dal sorriso dei suoi concittadini.

Il fascino archeologico dei blocchi contrapposti

L’invisibilità dello spionaggio contemporaneo (e la globalizzazione economica della politica e del potere), invece, crea qualche problema anche alla costruzione dell’eroe (non a caso, la strada scelta dall’ultimo Bond è quello della sua decostruzione; quanto a Danny, nessun riscatto narrativo possibile). Due racconti, val la pena notare, in cui l’uomo qualunque viene condotto, o travolto, dalle circostanze, così da mettere a tema, più o meno chiaramente, proprio la questione dell’allenamento al ruolo fornito dalla produzione culturale; e un uomo qualunque, almeno per metà, è anche il protagonista di The Night Manager, una miniserie statunitense del 2016 (ma basata su un romanzo di John Le Carré del 1993, Il direttore di notte, Mondadori, 1996, aggiornato per l’occasione). Jonathan Pine è, in realtà, un ex-soldato dell’esercito britannico, che ha però scelto di tornare alla vita civile nel ruolo di direttore (notturno) d’albergo. Il reclutamento da parte dei servizi segreti inglesi e poi l’ingresso nel corrotto mondo del luciferino Richard Roper da parte di Pine si rivela, ancora una volta, un’indagine per metà spostata verso il confronto (qui implicitamente favorito dai venticinque anni che separano romanzo e serie tv) tra due diversi immaginari culturali (e due diverse accezioni dello spiare e dell’essere spiati).

Tutto più semplice, insomma, per scrittori e cineasti, quando a fronteggiarsi erano due blocchi, come rivela la serie tv The Americans (iniziata nel 2013 e giunta alla terza stagione), ambientata in piena America reaganiana (mentre la meno riuscita Deutschland 83, produzione tedesca di otto episodi trasmessi nel 2015, torna al 1983, tra la Germania Est e Ovest). A Washington, le spie del Kgb Philip ed Elizabeth si fingono, da almeno quindici anni, americani, e soprattutto il primo, dopo tanti anni, sta lentamente apprezzando il capitalismo a scapito del comunismo, trascinato in questa rivalutazione dai due figli che nel capitalismo ci sono nati, e che dei genitori ignorano professione e provenienza. L’intensità dello sviluppo sentimentale (Philip ed Elizabeth, a poco a poco, si scoprono marito e moglie al di là della finzione) e l’intelligenza dell’analisi socioculturale fanno di The Americans una delle produzioni più interessanti della contemporanea quality tv statunitense, ma non c’è dubbio che buona parte del suo fascino risiede nella messa in scena (sempre puntuale) di una specie di archeologia spionistica e, al tempo stesso, per tornare ad Han, di un sistema panottico perfettamente prospettico, vale a dire, fondato su un unico centro di propagazione dello sguardo dispotico. Tempi lontanissimi, e che fanno quasi sorridere, come il gioco dei travestimenti, emblema di una “doppiezza” pesante lontana anni luce dalle logiche della finzione e della simulazione contemporanee. Ma, giustamente, la serie – come pure la britannica The Game (6 episodi, 2014), ambientata nel 1972 e centrata sul tentativo, da parte di alcun agenti dell’MI5, di disinnescare un’operazione di destabilizzazione politico-sociale della Gran Bretagna da parte del Kgb – mette da parte qualsiasi tentazione mitologica, scegliendo la strada di un realismo quotidiano. Il fascino archeologico di The Americans dipende, in larga parte, proprio da questa scelta stilistica, che traduce l’inevitabile “farsi storia” (antica) della spia e del suo lavoro.

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Quanto al contemporaneo, disinnescata la mitologia, preme sulla figura della spia e della sua professione qualcosa di simile a un’instabilità figurativa. Lo rivelano, come detto, gli ultimi capitoli della saga bondiana; ancora meglio, lo rivela una serie tv, Homeland (che nella distribuzione televisiva italiana diventa Homeland-Caccia alla spia…), iniziata nel 2011 e arrivata alla quinta stagione. Che merita di essere citata, in conclusione, non solo per la sua straordinaria capacità di intercettare e rielaborare i meccanismi (prima di tutto di sorveglianza) della società contemporanea, ma anche perché si impone come un testo “teorico” in merito al destino della spy story e, in particolare, del suo “eroe”. Protagonista della serie, infatti, è un’analista della Cia, Carrie Mathison, “the smartest and the dumbest fucking person” (così per il suo capo, Saul): bipolare, costantemente tirata tra il controllo della situazione e la follia, tra la riduzione razionale della complessità e l’abbandono paranoico al caos, Carrie è l’emblema della dimensione malata della contemporanea società del controllo, perché rivela come nell’eccitamento e nell’iperattivismo dello sguardo sia inscritta anche la sua inibizione. Il destino disturbato della spia Carrie riflette insomma, in senso propriamente storico, la realtà e la struttura del panottico contemporaneo. La sua logica spionistica e i suoi tanti, troppi occhi.

luca.malavasi@unige.it

L Malavasi insegna storia e critica del cinema all’Università di Genova