La critica letteraria, disciplina insepolta

Sul destino della critica letteraria, in coda alle riflessioni di Vittorio Coletti

di Andrea Cortellessa

dal numero di febbraio 2017

Che la critica letteraria sia in crisi lo si sa, ormai, da quasi un quarto di secolo (nel 1993 Cesare Segre intitolava un suo libro Notizie dalla crisi); che sia morta, da almeno un decennio (Eutanasia della critica, addirittura, è un titolo di Mario Lavagetto del 2005). Non credo però che le ragioni principali di questo fenomeno siano da addurre, come fa Vittorio Coletti sul numero dell’”Indice” di novembre, alla perdita di prestigio sociale e importanza culturale della letteratura del nostro tempo. Una geremiade fattasi da tempo repertorio: non c’è più Montale, non c’è più Pasolini e non c’è più Sanguineti, di conseguenza non ci sono più Auerbach, Contini né Debenedetti. E neppure io, aggiungerebbe Woody Allen, mi sento tanto bene. Su diversi corollari della tesi di Coletti, peraltro, non posso che dirmi d’accordo. L’emarginazione della critica dai cataloghi editoriali la relega ormai, per lo più, a un ruolo meramente filologico (quando va bene), più spesso storicistico grossier, bignamistico, museale-conservatoristico: dovendosi limitare a tenere in ordine i corridoi del Canone Occidentale in vista delle visite di scolaresche sempre più distratte. Oppure le fa subire una mutazione horror nella sua versione “selvaggia”: nella forma del bercio pettegolo-risentito che appesta l’universo social. Francamente non sono in grado di giudicare se la letteratura che si fa oggi sia o meno all’altezza di quella di mezzo secolo fa. A rispolverare certi dibattiti di quel tempo, si constaterebbe come fosse in voga già allora la giaculatoria del “non c’è più questo e non c’è più quello, signora mia”. Sempre che qualcuno a venire si picchi ancora di farne, bilanci simili si potranno fare solo da una distanza storica.

Mi piacerebbe, piuttosto, che nel dibattito si entrasse un po’ più nel complesso di cause sistemiche – un tempo si sarebbe detto “strutturali” – di questo stato di cose. Tanto per cominciare, la società (la “società stretta” della quale Leopardi lamentava la decadenza già nel 1824) come sede di espressione del “giudizio pubblico” non esiste più da tempo. Il crollo dell’intermediazione è un fenomeno del quale le nuove tecnologie digitali, e le loro pratiche sociali, sono state insieme effetto e concausa. Gli intellettuali, avvertiva Zygmunt Bauman già nel 1987, non possono più ambire al ruolo di “legislatori” ma solo (se gli va bene) a quello di “interpreti”.

Nel dibattito che seguì dieci anni fa al pamphlet di Lavagetto, notava Gabriele Pedullà su “Alias” (il 10 giugno 2006, prendendo spunto da un’edizione impeccabile che Domenico Scarpa aveva fornito dei Compagni sconosciuti di Franco Lucentini) come, esiliati dalle pagine dei grandi giornali e dai cataloghi editoriali in quanto autori, i migliori critici della sua generazione si fossero dovuti ritagliare un’enclave di sopravvivenza quali curatori di testi altrui. Una forma di vampirismo benevolo del quale pioniere si può considerare, in Italia, proprio quel Cesare Garboli che Coletti indica quale esempio di “ultimo grande critico” che si “è quasi creato lui il testo e l’autore che gli serviva”. Si sa come Garboli definisse “servile”, con vezzoso narcisismo a rovescio, tale sua attitudine a lavorare embedded nell’industria editoriale (che ha documentato di recente proprio Scarpa, insieme a Laura Desideri, curandone il volume La gioia della partita, Adelphi, 2016). Ma Garboli a volte davvero non si peritava di “inventare”, con vampirismo non più tanto benevolo, testi ridotti a meri pretesti della propria affabulazione di secondo grado (con conseguenze, a livello filologico, in più d’un caso perniciose). I critici delle generazioni successive non si sono vista riconosciuta tale autorialità; e questo, sul piano filologico, lo considero un bene.

Ma il ruolo dei critici-curatori si è modificato anche di conserva con l’involuzione catastrofica, nello stesso periodo, dell’editoria. Il periodo compreso fra la “crisi” e l’“eutanasia” della critica è lo stesso inaugurato dal libro-intervista dell’allora manager di Fininvest, Franco Tatò, A scopo di lucro: vero e proprio manifesto ideologico datato 1995. Un’”editoria senza editori” (per dirla con André Schiffrin) non ha alcun interesse a incoraggiare Quelli a cui non piace (come suona il titolo di un pamphlet di Francesco Muzzioli, Meltemi 2008): quelli ai quali cioè – nella perenta civiltà della pubblica opinione – era demandato il vaglio delle loro scelte. Schiffrin era giunto a parlare, per certe pratiche dell’industria editoriale nel tempo delle concentrazioni, di “censura del mercato”: i critici sono stati fra le sue prime vittime.

Non so quanto sia stato notato, peraltro, come la trasformazione del ruolo critico (con ulteriore giro di vite, rispetto al fenomeno descritto da Bauman) da “interprete a curatore” sia stato anticipato, rispetto al campo letterario, da quello dell’arte. L’illustre tradizione dei critici-scrittori, che da noi ha un faro-feticcio nel nome di Roberto Longhi, era estinta già a cavallo fra gli anni settanta e gli ottanta: già nel 1975 Achille Bonito Oliva introduceva il concetto di “sistema dell’arte”, complesso di contrappesi economici e istituzionali in cui il critico è un ingranaggio che garantisce le scelte di mercanti, galleristi e collezionisti non più con forme di scrittura più o meno brillanti, bensì con quella che è stata definita “scrittura espositiva”, ossia la capacità di allestire mostre ad alto tasso spettacolare e insieme (quando va bene) di grande rinnovamento interpretativo.

Naturalmente l’equivalenza dei processi osservabili, nei due campi, non è perfetta. Se non altro perché le arti visive, con buona pace di Walter Benjamin, nel tempo della loro riproducibilità tecnica non hanno affatto perso la loro “aura”; ed è infatti questo è l’unico campo in cui non abbia prevalso, sino alla “censura del differente”, la logica “quantitativa” che tanto assidera l’editoria senza editori. Ma la speranza è che proprio dal campo dell’“arte” sorella provenga una suggestione, se non un paradigma, che ci consenta di non dismettere del tutto l’ethos della critica e, con esso, la promesse d’un bonheur a venire. È stato Aby Warburg, infatti, a coniare il termine Nachleben, “sopravvivenza”, a proposito di figure e formule dell’antico che, dopo eclissi più o meno durature, trovano nuove forme in cui incarnarsi. Nel volume intitolato da noi L’immagine insepolta (in originale L’Image survivante, Bollati Boringhieri, 2006), Georges Didi- Huberman ha tratto da questa teoria il paradigma trans-storico, “anacronistico” e dinamico, che gli ha permesso di organizzare esposizioni come la parigina Soulèvements, di straordinario valore non solo artistico ma anche civile e politico.

Oggi la grande critica letteraria, come l’abbiamo conosciuta nel Novecento, è morta. Ma, se continuiamo a parlarne, vuol dire che non è ancora sepolta. E che forse, seppure in forme completamente diverse da quelle di allora – non sulla carta, per esempio, e non più nella forma geniale-individualista della tradizione; bensì seguendo protocolli individuali-plurali tutti da mettere a punto –, essa potrà tornare a vivere, in un qualche futuro. Che questo davvero possa avvenire, lo ignoro. Che ce ne sia bisogno, però, non è una pia speranza: è una constatazione che può fare chiunque viva nel tempo presente.

cortellessa@mclink.it

A Cortellessa insegna letterature comparate all’Università di Roma Tre

Critica letteraria: la morte della mistica partecipatoria

I grandi critici del secolo scorso (da Auerbach a Spitzer, da Debenedetti a Contini, da Getto a Cases e a Segre ecc.) furono per noi più giovani irresistibili bussole di orientamento nelle mappe dei mari letterari. E non perché le loro letture possedessero caratteri di assoluta oggettività. Ci davano intanto indicazioni di “valori”, attraverso letture che comunque erano altamente “personali”: chi si fermava di più sui tratti stilistici, chi sui personaggi, chi sull’ideologia, chi sul tasso di “attualità”, di “rispecchiamento” dell’età presente. E chi si occupava di più del testo, chi del contesto… L’intervento di Gian Luigi Beccaria sul numero di febbraio 2017