Franco Pulcini – Delitto alla Scala

La partitura ritrovata

recensione di Vittorio Coletti

dal numero di aprile 2017

Franco Pulcini
DELITTO ALLA SCALA
pp. 420, € 26
Ponte alle Grazie, Milano 2016

Franco Pulcini - Delitto alla ScalaFranco Pulcini ha scritto un bel giallo nello stile della miglior tradizione giallistica, quella che più che al colpevole del delitto è interessata all’ambiente in cui è maturato. Intendiamoci: c’è un delitto in piena regola nel suo libro, con tanto di macabro rituale, ma il fatto che questo venga commesso alla Scala sposta subito i riflettori sul mondo del nostro maggior teatro lirico e del melodramma. Ora, questo mondo Franco Pulcini lo conosce come nessun altro, perché della Scala da anni è il direttore editoriale, che cura le pubblicazioni e le conferenze sulle varie opere. Pulcini poi, è un musicologo di valore che si è scoperto narratore e sa porgere la sua bella cultura specifica con semplicità, senza esibirla, ma calandola nelle pieghe della trama. Se si facesse un confronto con Death al La Fenice della notissima giallista americana Donna Leon, che vive da anni in Italia, a Venezia, e i cui gialli sono tradotti in tutte le lingue meno che in italiano per sua espressa volontà, vedremmo, in una storia molto simile (del resto il delitto all’Opera è un topos del genere), forse la maggior abilità poliziesca di Donna Leon, ma anche la nettamente maggior conoscenza del mondo teatrale e musicale da parte di Pulcini, che ci sta dentro, mentre la Leon (che per altro ha scritto anche un simpatico libretto sugli animali nell’opera di Händel)  lo guarda essenzialmente da turista e spettatrice.

Spassoso microcosmo

Al centro del plot di Delitto alla Scala c’è la partitura ritrovata dell’Arianna di Monteverdi, una delle più celebri lacune della nostra tradizione operistica, che di quest’opera (1608) del grande compositore conserva tutto il libretto (di Ottavio Rinuccini), ma solo la musica della sesta scena, il famoso Lamento di Arianna abbandonata a Nasso (da cui l’espressione “piantare in asso”), che Monteverdi ha ripreso anche, in versione polifonica, nel Sesto libro dei suoi madrigali. Il manoscritto ritrovato è oggi un tema che tira nei gialli ed è inevitabile che intorno a tale scoperta (di inestimabile valore culturale e commerciale) si scatenino rivalità e giochi sporchi di ogni sorta, di cui l’omicidio è soltanto il più grave. A risolverlo è chiamato il commissario di polizia siculoarabo Abdul Calì, una trovata meticcia che Pulcini ha creato forse in omaggio al gusto del color locale tanto diffuso quanto spesso approssimativo nell’opera lirica. L’esotismo di Calì in effetti finisce col suo nome, perché per il resto si muove e ragiona come un pragmatico milanese e si innamora banalmente proprio come un italiano doc, che scrive bigliettini amorosi stile Baci Perugina.

Calì però è un inquirente meticoloso e indaga con intelligenza dentro e nei dintorni del Teatro il cui microcosmo fornisce il meglio del libro. Perché la galleria dei personaggi, sicuramente ispirati a spezzoni di figure reali, è vivacissima, non di rado spassosa: i cantanti narcisi e gelosi, i loggionisti inviperiti, i soci sostenitori riveriti, i critici musicali astiosi. Su tutti spiccano però il direttore artistico Olimpio Ferri, collerico, ironico e competente come pochi, e l’avvocato napoletano Pasquariello, chiamato a fare da commissario straordinario della Scala, la cui Prima è a rischio per via dell’omicidio che ha tolto di mezzo il direttore d’orchestra. I due sono così divertenti e veri che solo uno ben addentro al mondo della musica e della sua complicata amministrazione poteva descriverli tanto precisamente. All’esperto del ramo si devono anche certe convincenti figure degli uffici, come la segreteria poliglotta Ulrica, devota ed efficiente, o gli orchestrali suscettibili, per non dire dei sindacalisti litigiosi.

Nel libro c’è ovviamente anche il gusto colto e misurato di chi del nostro melodramma ha già visto ogni interpretazione registica possibile e immaginabile, intelligente o stupida: lo si vede nelle pagine in cui Pulcini racconta la solita regia nordeuropea (qui olandese) che dell’opera italiana non capisce un cavolo ma si vanta di darne una lettura moderna e originale, mentre è solo o soprattutto insulsa. Insomma: un libro che gli amanti del giallo possono godersi come se fosse di uno scandinavo, e gli amatori dell’opera come se fosse uno spettacolo visto dietro le quinte.

vittorio.coletti@lettere.unige.it

V Coletti insegna storia della lingua italiana all’Università di Genova