Il mondo interpretato da James Joyce

La presenza di Giordano Bruno nell’opera dello scrittore irlandese

di Elisabetta D’Erme

dal numero di febbraio 2017

Che cos’altro propone Joyce in Finnegans Wake se non una radicale ridefinizione di ciò che Rilke chiamò il “mondo interpretato”? E con quali strumenti se non con la sola “parola conquistata”? L’opus joyciano è un tentativo di ri-nominare il “chaosmos”, suggerisce Enrico Terrinoni nell’introduzione all’epistolario di James Joyce, di cui ha curato una nuova edizione che raccoglie Lettere e saggi (pp. 1101, € 75, Il Saggiatore, Milano). Le lettere, una selezione dei due quindi dell’epistolario esistente, sono quelle già pubblicate nei “Meridiani” (1976) e, come per alcuni saggi, ne sono state mantenute le traduzioni di Giorgio Melchiori, Giuliano Melchiori e Renato Oliva, mentre per i saggi giovanili la traduzione è di Sara Sullam. Per merito degli aggiornamenti nella lingua e degli apparati critici effettuati dai co-curatori Franca Ruggieri e Francesca Scarpato, il risultato finale è molto stimolante. Mille pagine che racchiudono il romanzo d’una vita, o come scrive Terrinoni: “«Un “caosmo” che dobbiamo rimemorare, (…) un universo fatto di mondi (worlds) fatti di parole (words). Mondi che grazie alla lettura possiamo evitare di far rimemorire».
Tra le infinite suggestioni e percorsi di lettura sollecitati da questi scritti vorrei estrapolarne uno in particolare, che quest’edizione sembra in qualche modo evidenziare. Mi riferisco alla presenza nei testi di Joyce del tema della memoria e della figura di Giordano Bruno. Temi già documentati e approfonditi in decenni di studi joyciani, ma per i quali si possono forse individuare ancora spazi interpretativi.

Modello di ribellione

Joyce, educato dai Gesuiti, conosceva le tecniche mnemoniche suggerite da Loyola negli Esercizi spirituali ed era dotato di una straordinaria memoria naturale; inoltre, l’autore di A Portrait of the Artist as a Young Man venne attratto fin da giovanissimo dalla figura di Bruno e se ne servì per tutta la vita come modello per la propria ribellione. Nella sua biblioteca erano presenti diversi testi del Nolano, come Lo Spaccio della Bestia Trionfante, che citava già nel 1901 in The Day of the Rabblement. Il volume ora pubblicato riporta tra i saggi giovanili un articolo apparso sul “Daily Express” del 3 ottobre 1903 in cui il ventunenne Joyce recensiva una biografia “dell’eresiarca martire di Nola” a cura di James L. McIntyre. Nell’articolo Joyce esalta «il padre di quella che chiamiamo filosofia moderna» e la sua ricerca «d’esercitare l’attività dello spirito». Un superbo che non teme la morte e la cui «apologia della libertà d’intuizione deve rappresentare per noi un duraturo monumento».

Qualche anno dopo a Roma, come racconta in una lettera del 1° marzo 1907 al fratello Stanislaus, Joyce partecipò anche ad una manifestazione in ricordo di Giordano Bruno a Campo di Fiori, ma il rapporto tra questi due esuli eretici non si ferma qui. Quello che sorprende non è tanto la presenza quasi fisica nell’intera opera di Joyce del “professore vagabondo” e della sua filosofia sulla coincidenza degli opposti, o il fatto che il suo nome appaia in multiformi variazioni nei romanzi e racconti, o che venga evocato centoun volte in Finnegans Wake e nemmeno che gli interminabili elenchi di grandi uomini ed inventori che popolano l’episodio dei Ciclopi nell’Ulysses sembrino essere usciti dal Liber De umbris idearum. Ciò che traspare da queste lettere e saggi è la percezione d’una affinità più profonda, che rimanda ad una concezione dell’uomo molto rinascimentale, ad un’inesauribile sete di conoscenza e all’entusiasmo per la funzione creativa dell’immaginazione.

L’arte della memoria

La temperie culturale che alimentò il pensiero del Nolano è stata brillantemente illustrata da Frances A. Yates in volumi quali Giordano Bruno and the Hermetic Tradition (1964) o The Art of Memory (1966). In quest’ultimo, la studiosa del Warburg Institute intraprende un percorso che, dalle pratiche di mnemotecnica dell’antichità, attraverso l’invenzione cinquecentesca del “Teatro della Memoria” di Giulio Camillo Delminio, arriva fino ai “magici” sistemi di memoria escogitati da Giordano Bruno. Parliamo insomma dell’ambito dell’ermetismo neoplatonico e cabalistico di Marsilio Ficino, di Pico della Mirandola, dello Pseudo-Dionigi e di Cornelio Agrippa.
L’invenzione di Camillo consisteva in un teatro di legno a scala ridotta, contenibile in una stanza, diviso in sette settori, riproducenti le scalee di un anfiteatro romano che, a partire dai sette pianeti e passando per sephiroth, immagini astrologiche, divinità classiche e miti archetipici sarebbe stato in grado d’attivare la memoria e favorire le capacità dialettiche. Camillo aveva definito il suo teatro “una mente e un’anima artificiale” oppure “un’anima provvista di finestre”. L’arte della memoria si presentava dunque come un faustiano mezzo di conoscenza. L’universo si poteva riflettere nella mente che, in virtù dell’organizzazione magica dell’immaginazione, riusciva poi ad entrare in sintonia con il cosmo.

Gli scritti di Yates indirizzarono inevitabilmente alcuni studiosi a ricercare connessioni tra l’opera di Joyce e le arti della memoria. Tra i primi vi fu Stephen Heath, che in un saggio del 1982 scrisse: «Ulysses è scritto e funziona come un gigantesco teatro della memoria. Basti pensare al suo enciclopedismo, alle corrispondenze relative ad ogni singolo episodio, ognuno caratterizzato da un riferimento ad un organo, arte, tecnica, simbolo, colore e così via».
Eppure, ciò che accomuna Joyce agli umanisti rinascimentali non è solo il credo che equipara l’immaginazione alla memoria, ma soprattutto l’ossessivo bisogno di catalogare, riprodurre e ricreare infiniti mondi, assemblare tutto lo scibile e le lingue note per interagire col lettore in un processo creativo di crescita.
È in fondo quanto aveva in mente un altro grande artista-filosofo del Cinquecento, Lorenzo Lotto, quando tra il 1524 e il 1531 ideò un percorso iniziatico per il coro della Basilica di Santa Maria Maggiore a Bergamo. Lotto aveva ricevuto l’incarico di fornire i cartoni per “invenzioni” su temi biblici per le tarsie istoriate del coro ligneo. Come ha ricostruito il critico d’arte Mauro Zanchi in Lorenzo Lotto e l’immaginario alchemico (1997), all’artista vennero inoltre richieste rappresentazioni “simboliche” delle storie vetero-testamentarie. Quelle trentasei simbologie geroglifiche, che Lotto definì “imprese”, avrebbero dovuto essere impiegate come coperti protettivi da apporre sopra le tarsie delle “invenzioni” bibliche. In realtà si rivelarono talmente interessanti che vennero usate come schienali del coro dei Religiosi e in questa collocazione si possono ammirare ancora oggi. Si tratta di immagini surreali, esemplificabili nel coperto “Chaos Magnum” per l’impresa della creazione, che presenta un sole con quaranta raggi contenente dieci sfere con al centro un occhio rovesciato da cui partono due braccia aperte e due piedi rivolti verso l’alto. In queste opere, scrive Zanchi, “l’artista veneziano dipana un’esposizione di idee simultanee, per far ondeggiare la mente in un’abbondanza di pensieri e rimandi, per favorire l’eccitamento delle sensazioni spirituali”. Queste immagini enigmatiche erano ideate in modo da “evocare una polivalenza di significati – letterale, allegorico, morale, analogico, anagogico ed ermetico”. Similmente a quanto è necessario al lettore di Joyce, “al fruitore erano richiesti velocità mentale, ritmo dinamico per i collegamenti di senso, prontezza di spirito e agilità di pensiero”. Un percorso di evoluzione intellettuale ricco di riferimenti alla mitologia, alla cabala, all’astrologia e all’alchimia, da intraprendere con le arti della mnemotecnica. Lotto era di casa nei circoli ermetico-neoplatonici dell’epoca, e Camillo, l’ideatore del “Teatro della Memoria”, era tra i suoi amici. Il “Coro della Memoria”, normalmente chiuso al pubblico, è visitabile fino al 26 febbraio nell’ambito della mostra su Lorenzo Lotto allestita all’Accademia di Carrara di Bergamo, che prevede una serie di itinerari artistici cittadini.

James Joyce e Carlo Linati

In questo contesto è particolarmente interessante leggere la lettera che James Joyce inviò a Carlo Linati il 21 ottobre del 1920, a cui allegava il famoso schema esplicativo dell’Ulysses, riportante la numerazione ed i titoli dei diciotto episodi e, rispettivamente, le corrispondenze per: l’ora del giorno (16.6.1904), i colori, i personaggi omerici, la tecnica linguistica, le scienze/arti, il senso (significati), gli organi del corpo, i simboli. Così scrive Joyce all’amico (in italiano): «Vista l’enorme mole e la più enorme complessità del mio maledettissimo romanzaccione credo sia meglio mandargliene una specie di sunto-chiave-scheletro-schema (per uso puramente domestico)». L’autore dell’Ulysses spiega che il romanzo è anche “una specie di enciclopedia” e che era sua intenzione rendere non solo il mito omerico “sub specie temporis nostri”, ma anche ottenere un’assoluta simultaneità di significati (esattamente come s’erano riproposti Camillo col suo Teatro e Lotto col suo Coro). Da esperto ermetico, il “senso/significato” riportato da Joyce per i singoli episodi resta però altamente enigmatico, tanto che le sue indicazioni sembrano quasi riecheggiare i titoli delle imprese del coro di Bergamo: “Il figlio spodestato alla lotta”, “La saviezza del vecchio mondo”, “La Prima materia”, “La seduzione della Fede” eccetera. Nondimeno, per quanto evocativo sia lo “schema Linati”, è in realtà l’intera cosmogonia joyciana, vero locus memoriae dell’Anima Mundi, ad apparirci come un grande teatro della memoria.
Nel De imaginum, signorum et idearum compositione (1591) Bruno aveva esposto una teoria dell’immaginazione pensata come strumento d’un processo magico e, in conformità alle teorie di Camillo, aveva trasformato l’arte della memoria da esercizio tecnico in esperienza gnostica. Sarà però infine James Joyce che in Finnegans Wake, una volta indossati i panni del mago demiurgo, tenterà di portare alle estreme conseguenze il pensiero del suo maestro, l’“old father, old artificer”, Brown the Nolan.

dermowitz@libero.it

E D’Erme è studiosa di letteratura irlandese e tedesca