Le cause dell’euroscetticismo e il futuro incerto delle istituzioni comunitarie

Un disperato bisogno di leader e ampie visioni

Intervista ad Alessandro Cavalli di Valentina Cera

dal numero di settembre 2016

Esiste tra i cittadini europei un vero e proprio senso di appartenenza all’Europa considerata come unità e non come organizzazione internazionale tra stati sovrani?

Le identità sono sempre plurime e di intensità variabile, convivono quelle forti con quelle deboli, quelle che si rafforzano e quelle che si indeboliscono. Le dimensioni locale, regionale, nazionale ed europea, non sono necessariamente in competizione per definire il senso di appartenenza territoriale, convivono in proporzioni variabili. Anche se, rispetto alla prima metà del secolo scorso, le identità nazionali si sono dapprima indebolite e ora, di fronte ai timori prodotti dalla globalizzazione, riaffiorano in forma regressiva e difensiva, sottraendo vigore all’identità europea. Quando sfiducia e paura diventano sentimenti diffusi e dominanti il rischio di ripiegare sul passato è una tendenza fatale. L’identità europea non sarà mai un’identità forte come lo sono state quelle nazionali. Almeno, io mi auguro che non lo diventi, che non si formi una “nazione Europa”. Però, non deve neppure essere così debole da impedire la possibilità di stare insieme e collaborare a un futuro comune. L’identità si costruisce sulla memoria e sul progetto, sul versante della memoria ci deve essere la volontà di superare le divisioni retaggio del passato (che non solo esistono, ma sono anche ingombranti), sul versante del progetto, manca un’idea di futuro: che ruolo l’Europa vuole giocare nel mondo di domani?

Peraltro, le istituzioni dell’Ue sono state congegnate in modo tale da evitare che erodano l’identificazione e la lealtà verso il proprio stato nazionale. Gli stati hanno ceduto pezzi di sovranità ma hanno mantenuto tutti i simboli che producono identità. Non è un caso che, dopo l’esito negativo del referendum francese e olandese sul trattato costituzionale del 2005, il successivo Trattato di Lisbona abbia accantonato tutti quegli elementi simbolici che avrebbero potuto significare l’affermazione di un’identità europea. E non è un caso neppure che a guida della commissione, dopo Delors e Prodi, siamo stati scelti personaggi meno ingombranti e tutto sommato di secondo piano come Barroso e Juncker. I poteri della commissione sono stati di fatto ridimensionati a vantaggio del Consiglio, cioè dei governi degli stati membri. A parte la Bce, che è rimasta l’unica vera autorità sovranazionale, l’unità viene raggiunta al minimo comun denominatore in modo che non interferisca con gli interessi a breve (soprattutto, elettorali) dei governi degli stati membri.

Come incide il deficit democratico, di cui la costruzione istituzionale europea soffre, nel lungo processo di creazione di una società propriamente europea?

Come tutte le burocrazie, quella di Bruxelles appare esageratamente elefantiaca, inefficiente e distante dai cittadini. I dipendenti della commissione e del parlamento europeo sono però meno di quelli del comune di Roma (comprese le società partecipate), si occupano spesso di regolamentare materie che potrebbero tranquillamente essere lasciate a autorità inferiori, ma non possono occuparsi delle vere grandi questioni della politica estera, militare, fiscale e di bilancio. Si è cercato, con Schengen, di abolire le frontiere interne, ma non si è fatto quasi nulla (salvo Frontex) per presidiare quelle esterne all’Ue. Così, di fronte al problema degli immigrati, in assenza di Europa, gli stati hanno ripreso il controllo delle loro frontiere. L’Europa è inefficiente perché non c’è, non perché ce n’è troppa.

E poi Bruxelles è percepita, ed è, distante dai cittadini, soprattutto da coloro che la crisi ha relegato ai margini della società. Si parla di deficit democratico delle istituzioni europee ed è vero che eleggere un parlamento (quelle europeo) senza poteri veri di controllare un governo vero non è un bel servizio reso alla democrazia. Il problema è come passare da democrazie nazionali a una democrazia sovra-trans-nazionale. C’è chi sostiene che senza demos non ci possa essere democrazia, io penso che il demos si costruisce insieme alla democrazia. Date al parlamento europeo il potere di nominare un governo, di armare un esercito, di gestire una (sia pure modesta) fiscalità europea e di assicurare a tutti un minimo (ma dignitoso) di sussistenza e vedrete che il demos non tarderà a formarsi.

La cattiva immagine di Bruxelles non è solo un effetto del deficit democratico, ma dell’incapacità dell’Unione di affrontare efficacemente e tempestivamente le grandi questioni che preoccupano le opinioni pubbliche dei paesi europei: controllare il potere della finanza globale, contenere la disoccupazione, ridurre le disuguaglianze e le povertà, governare le migrazioni, affrontare la crisi energetica e ambientale, combattere il terrorismo e altre ancora. Le opinioni pubbliche non si rendono conto che l’Ue non ha né i poteri, né le risorse per risolvere queste questioni. L’Ue è una costruzione fondamentalmente intergovernativa e i governi perseguono l’interesse nazionale piuttosto che l’interesse comune europeo. L’anno scorso sono arrivati entro i confini dell’Ue più di un milione di rifugiati, ma a livello europeo non si è riusciti a trovare un accordo neppure sulla collocazione di 40.000.

Brexit: l’uscita della Gran Bretagna rappresenta solo un passo in direzione opposta al processo di integrazione europea o è invece un’occasione?

L’adesione tardiva del Regno Unito alla Cee era motivata da due considerazioni: se fosse restato fuori non avrebbe potuto godere appieno dei benefici di un grande mercato in espansione, entrando avrebbe potuto operare in modo che l’integrazione economica non rischiasse di dirigersi verso l’integrazione politica. I governi britannici non hanno mai creduto nella possibilità di un’effettiva unione e, soprattutto, non l’hanno mai voluta. La mancata adesione alla moneta unica e agli accordi di Schengen, l’utilizzo delle clausole di opting out avevano già creato di fatto un’Unione a due velocità. Tuttavia, la vittoria di misura del Leave al referendum vuol dire che una parte consistente, di poco minoritaria, della popolazione britannica non si sia lasciata sedurre dal ritorno del nazionalismo. L’analisi dei dati referendari mettono in evidenza i clevages di fronte alla scelta pro o contro l’Europa: giovani versus anziani, metropoli versus provincia, zone sviluppate versus zone in crisi, strati e ceti arricchiti versus ceti e strati impoveriti.

È molto probabile che se si votasse in altri paesi i cleavages sarebbero gli stessi. Se votassero solo i cittadini mediamente benestanti, mediamente istruiti e più giovani l’Unione europea non avrebbe difficoltà a raccogliere la maggioranza dei consensi. Può darsi che l’esito del Brexit produca un effetto contagio e acceleri un processo di disgregazione, ma non ne sarà la causa. L’uscita della Gran Bretagna (vedremo se e come avverrà concretamente) è il sintomo della malattia dell’Unione, non ne è una causa. L’Unione è in crisi da tempo, ma può sopravvivere anche senza il Regno Unito.

L’esito del referendum francese del 2005 ha segnato una svolta importante, forse decisiva nella crisi dell’Unione. Da allora, i nazionalismi hanno rialzato la testa ovunque. Quale futuro potrà e saprà darsi in questo contesto l’Ue?

Ma non è detto che vincano sempre. Molto dipenderà dalle condizioni del contesto storico e dalla risposta delle classi dirigenti. Intanto, il contesto geo-politico. Gli Stati Uniti non hanno interesse alla disgregazione dell’Europa ed è quindi probabile che facciano il possibile per evitarla. Se l’euro si fosse rafforzato troppo come moneta degli scambi internazionali avrebbe potuto scalzare in parte la posizione privilegiata del dollaro, ma per il momento questo rischio sembra evitato. La Russia di Putin non ha nessun interesse a che l’Ue si rafforzi e si estenda avvicinandosi ulteriormente ai suoi confini, ma non ha neppure interesse a perdere i mercati per le sue riserve di gas. Il Medio Oriente e il Nord Africa resteranno aree turbolente, fonti di disordine e anarchia internazionale. Ma gli europei avranno sempre meno voce in capitolo nella gestione dei problemi di questa, come di altre, parti del mondo, se non sapranno unire le loro forze o, meglio, le loro debolezze.

Per quanto riguarda il contesto geo-economico, è improbabile che nel mondo possa riaprirsi una fase di forte sviluppo. Ci saranno probabilmente frequenti crisi in qualche parte del globo che si diffonderanno più o meno rapidamente per effetto delle interdipendenze. Ma se le turbolenze non saranno disastrose può darsi che l’Unione europea possa sopravvivere vivacchiando nel suo attuale assetto intergovernativo. Le migrazioni continueranno, sarà difficile contenerle ed è possibile che generino processi di rigetto, conflitti, esclusioni e che la qualità della vita civile ne debba soffrire. Ma può anche darsi che le falle vengano temporaneamente tamponate in modo sufficientemente efficace. Può darsi che l’Europa sia destinata a declinare dolcemente, ma non è neppure da escludere che si generino crisi rovinose.

Se le classi dirigenti dei maggiori paesi europei avvertiranno acutamente il pericolo di un’accelerazione del processo di disgregazione, potranno invertire la rotta. Non è difficile pensare a che cosa si dovrebbe fare per rimettere l’Europa sulla rotta dell’Unione: creare una polizia di frontiera di terra e di mare per presidiare i confini esterni (praticamente l’embrione di un esercito europeo), dare alla Bce i poteri per funzionare come prestatore di ultima istanza (creando così le premesse per una soluzione a lunga scadenza dei problemi dei debiti pubblici), garantire ai disoccupati, e a tutti i cittadini sotto una determinata soglia, un reddito sufficiente per vivere dignitosamente, incrementare il bilancio trasferendo all’Unione una limitata capacità impositiva (non più del 4-5 per cento del Pil dell’Ue, riducendo parallelamente le entrate fiscali degli stati nazionali).

Con una visione ampia e proiettata nel medio-lungo termine e su un progetto di questa natura (forse anche un po’ meno ambizioso) le classi politiche e dirigenti dei maggiori stati europei potrebbero cambiare con chances di successo l’opinione euroscettica dei cittadini. Sapranno farlo? Non lo so, per farlo abbiamo un disperato bisogno di grandi leader.

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