Francesco Benigno – La mala setta

Le plebi pericolose prima di pupi e cantastorie

recensione di Antonio De Francesco

dal numero di dicembre 2015 

Francesco Benigno
LA MALA SETTA
Alle origini di mafia e camorra, 1859-1878
pp. 448, € 35,
Einaudi, Torino 2015

A dispetto del sottotitolo, il libro di Benigno non è una ricerca sulla genesi della malavita organizzata nel Mezzogiorno. Frutto di un appassionato lavoro di scavo negli archivi e biblioteche d’Italia e di una raffinata lettura di fonti oblique e ingannevoli, le sue pagine son piuttosto un invito a tenersi distanti dai procedimenti a ritroso, tramite i quali le preoccupazioni dell’oggi portano a ritrovare nelle scorse stagioni sicure anticipazioni del tempo presente. Qui non è una storia della camorra (e della mafia) come fenomeni di delinquenza organizzata destinati ad accompagnare sin dagli inizi le vicende dell’Italia unita: l’ambizione, più limitata e al tempo stesso più affascinante, è invece quella di tornare al tempo della scoperta di quelle associazioni malavitose (grosso modo i primi anni dello stato unitario, quelli a guida della destra storica) per suggerire come l’attenzione nei confronti della criminalità fosse la conseguenza di una preoccupazione d’ordine politico. Su questo terreno, Benigno muove con grande finezza e ricorda (ma la considerazione non è scontata) come nelle città dell’Ottocento le cosiddette classes dangereuses non lo fossero tanto per la capacità di mettere in discussione la proprietà, quanto per la possibilità di tutto travolgere tramite quelle sommosse urbane che le journées parigine, dal 1789 in poi, avevano sottratto alla dimensione passatista per colorare di una tinta rivoluzionaria. Anche in Italia le folle urbane creavano lo stesso problema: e le pagine di Benigno, che spaziano al riguardo da un capo all’altro della penisola, ricordano come l’insurrezione di plebe fosse, per i tutori dell’ordine, a nord come a sud della penisola, uno scontato tratto rivoluzionario, ossia la conseguenza di un fenomeno di acculturazione degli strati più bassi della società, nei confronti dei quali sempre alta doveva restare la guardia.

La camorra prima e la mafia poi non facevano eccezione: ad avviso dei tutori dell’ordine pubblico, i suoi componenti si mescolavano ai papalini e ai borbonici, ai garibaldini e ai mazziniani, ai reazionari e ai repubblicani e in seguito anche ai democratici e agli anarchici, agli internazionalisti e ai socialisti per dare forma a una mostruosità politica, un’idra le cui cento teste poggiavan tutte sul medesimo corpo di un associazionismo misterioso, a sua volta retaggio e sviluppo dell’universo settario che aveva goduto di grandi fortune nell’Italia di primo Ottocento. In tal modo le pagine di Benigno illuminano su come gli strumenti della politica possano avere la meglio sull’analisi della realtà e, appropriandosi di categorie costruite in altri contesti, addirittura trasformare un tessuto criminoso in un soggetto dalle autonome finalità eversive.

Il punto è convincente e la meccanica di questa traslazione del malaffare di quartiere in una forma di associazionismo segreto, dotato di propri simboli e rituali, non deve troppo stupire, perché sembra…

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