Pascal Manoukian – Derive

Nei grigi parcheggi del reclutamento

recensione di Francesca Giommi

dal numero di febbraio 2017

Pascal Manoukian
DERIVE
ed. orig. 2015, trad. dal francese di Francesca Bononi
pp. 237, € 17
66thand2nd, Roma 2016

Pascal Manoukian - DeriveReporter e scrittore francese, appartenente egli stesso ad una famiglia armena scappata dalla Turchia in Francia per fuggire il genocidio del suo popolo, Pascal Manoukian si cimenta per la prima volta con il romanzo dopo aver già pubblicato nell’autobiografico Le diable au creux de la main (Don Quichotte, 2013) in cui narra la sua drammatica ventennale esperienza di corrispondente in molte zone di guerra, che lo ha portato a documentare i più atroci conflitti di fine secolo ma che si è interrotta bruscamente nel 1995 dopo la morte di un soldato bosniaco sedicenne avvenuta proprio davanti al suo obiettivo.
Le vicende narrate in Derive sono ambientate nel 1992 e raccontano dei destini incrociati di tre diversi personaggi, tre migranti provenienti da parti remote del mondo eppure accomunati dal desiderio di una vita migliore per se stessi e per le loro famiglie. Virgil, muratore moldavo deluso come molti dal post-comunismo e dalle promesse non realizzate dopo la caduta del Muro, si lascia alle spalle moglie e figli con il sogno di ricongiungersi a loro non appena avrà fatto fortuna in Francia. Qui incontra il somalo Assan, fuggito in seguito allo scoppio della guerra civile nel suo paese portando con sé Iman, unica figlia superstite costretta a viaggiare travestita da ragazzo, e il bengalese Chanchal, messo in fuga dalle catastrofi naturali e dalla povertà endemica che affliggono il Sud-Est asiatico, scappato da Dacca col sogno di diventare cameriere, ma che si accontenterà di vendere rose.

Ogni giorno è una lotta alla sopravvivenza

La scelta dell’anno non è ovviamente casuale. Sebbene l’opinione pubblica ritenga le migrazioni contemporanee un fenomeno recente, questi flussi non sono affatto un’emergenza degli ultimi anni ma il frutto di una lunga gestazione, che ha avuto proprio intorno al 1992 un incremento esponenziale e incontrovertibile. A inizi anni novanta si affermano infatti i primi passeur, trafficanti di uomini per terra e per mare che hanno poi lasciato il posto a strutture criminali vere e proprie. È da allora che pescatori libici hanno iniziato ad abbandonare le reti per diventare scafisti senza scrupoli e che si sono creati gruppi jihadisti finanziati col racket dei rifugiati. Presenze come Boko Haram e Al Qaeda nel Maghreb islamico hanno preso a taglieggiare quanti passano nel territorio da loro controllato o ad assumere direttamente il controllo del traffico; il fondamentalismo musulmano si è diffuso in Afghanistan e Somalia e si sono delineati gli accordi di Schengen in Europa, costituendo un’unica grande frontiera e consolidando il paradosso contemporaneo per cui di migrazione si può anche morire.

Dopo viaggi rocamboleschi, i tre fuggiaschi si ritrovano vivi ma derelitti a Villeneuve-le-roi, nella banlieue parigina, e cercano di solidarizzare tra loro per resistere ad un’esistenza fatta di privazioni e sotterfugi, perdite e sofferenze, scoprendo presto come la clandestinità porti inevitabilmente con sé una pesante dose di rischio e atrocità. Nei grigi parcheggi dove i migranti vengono reclutati come manovalanza in nero, si ridelineano in astratto i confini universali della geopolitica: gli afghani lontani dai curdi, i bosniaci fuori dalla portata dei serbi, i turchi distanti dagli arabi, i moldavi separati da romeni, senegalesi e ivoriani. Ogni giorno è una lotta di sopravvivenza e autoconservazione e ogni gruppo ha un suo compito specifico indispensabile anche agli altri. Serbi e ucraini fabbricano documenti falsi, i romeni trafficano in alcol e sigarette, i turchi si dividono con i moldavi il commercio delle ragazze, curdi e gli afghani gestiscono con violenza inaudita la maggior parte delle reti clandestine all’interno delle frontiere europee, in un universo parallelo quasi solo maschile, che con la perdita di madri, figlie e donne amate perde gradualmente e tragicamente anche la sua umanità.

Intima complicità con il lettore

Manuokian, che ha avuto una nonna deportata in Francia nel 1927, venduta come schiava e salvata da un’associazione umanitaria, ben conosce il significato di quell’accoglienza e quella fratellanza che il testo invoca (richiamando così sinistramente i fatti di cronaca più recenti, come la vicenda di Calais con la sua soluzione repressiva, il rafforzamento del Front National e le fosche prospettive per il futuro che questi proiettano sulla Francia e sull’Europa). Anche la scelta di scrivere un romanzo e non un reportage si rivela dunque particolarmente azzeccata, poiché nella letteratura c’è qualcosa di intimo che crea una sorta di complicità con il lettore, facendoci in questo caso realizzare quanto poco senso abbia la distinzione operata dalle regole internazionali dell’accoglienza tra rifugiati politici e “semplici” migranti economici, che non tiene conto del fatto che lasciare (o costringere) paesi alla povertà assoluta non può che portare a nuovi conflitti, dittature e rivoluzioni, e di quanto bisognerebbe piuttosto affrettarsi ad agire sulle vere cause di queste migrazioni.

giommifrancesca@libero.it

F Giommi è independent researcher di letterature e culture africane e di migrazione