Letteratura congolese: un’Africa senza savana né romanticismo

La rive gauche e la rive droite del fiume Congo

di Luca Terzolo

dal numero di febbraio 2016

Grégoire, protagonista di African Psycho di Alain Mabanckou, è un insignificante ometto dalla testa a rettangolo; fa il carrozziere in un degradato e malfamato quartiere; il suo sogno è quello di diventare un serial killer ricalcando le orme del suo modello, il celebre bandito Angoualima. Al momento Grégoire non ha un curriculum criminale molto ricco: ha cavato un occhio al fratello adottivo che cercava di violentarlo, sfondato con una martellata il cranio a un notaio e tentato maldestramente uno stupro. Ora progetta l’omicidio della sua convivente, Germaine, una prostituta.

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Il tutto viene narrato (in prima persona) nei toni del grottesco e del caricaturale: Grégoire va in continuazione al cimitero a dialogare sulla tomba del Gran Maestro Angoualima (che nei fitti paradossali dialoghi non nasconde di disprezzarlo). Angoualima era celebre, oltre che per gli innumerevoli furti e omicidi soprattutto ai danni dei cooperanti bianchi (le teste mozzate venivano trovate con un grosso sigaro in bocca), per le dodici dita e per il “diabolico” trucco di indossare particolari scarpe con la suola invertita che gli permettevano di dissimulare il percorso seguito e la direzione presa. Anche la descrizione ambientale (tutto si svolge in un agglomerato urbano, non c’è traccia di “natura”, non c’è flora né fauna che non sia quella delle favelas di tutto il mondo) è nello stesso registro: oltre al nome, già di per sé più che significativo, del quartiere, si segnala la via Solo-cento-franchi monopolizzata da prostitute e clienti e il bar “Bevete, questo è il mio sangue”. Il ruscello, una fogna a cielo aperto che divide in due il quartiere (rive droite e rive gauche) è stato battezzato Senna dal sindaco per l’“evidente” affinità con Parigi.

L’uniformità stilistica è data dalla straordinaria voce di Grégoire che sproloquia e delira dalla prima all’ultima pagina (“Vorrei chiarire subito un paio di equivoci: l’istruzione eclettica ricevuta dalle famiglie affidatarie e la strada hanno prodotto in me una cultura che somiglia un po’ alla maionese impazzita. Perciò sono in grado di esprimermi in un linguaggio che si potrebbe definire corretto, ricercato, e immergermi un attimo dopo nella più spettacolare volgarità… Ne so qualcosa di linguaggio crudo. Al limite me l’avranno edulcorato un po’ le letture del libro sacro che mi imponevano da ragazzo. A quella roba uno crede di ribellarcisi, ma qualche cicatrice rimane per il resto della vita. Pazienza…”).

Alain Mabanckou, poeta e romanziere nato a Pointe Noire (Repubblica del Congo, un tempo Congo francese o Congo Brazzaville) nel 1966, ha avuto molti e importanti premi e riconoscimenti. Dopo aver studiato legge a Brazzaville ed essersi trasferito in Francia attualmente insegna letteratura francofona alla Ucla a Los Angeles. Il suo romanzo più celebrato è Pezzi di vetro, adattato anche per il teatro in ragione della significativa, classicissima, unità di luogo costituita dal bar “Credito a morte” (geniale ribaltamento céliniano), l’affollatissimo e assai equivoco bar aperto giorno e notte attorno al quale tutto ruota. Il padrone, Lumaca testarda, odia le frasi fatte del tipo “in Africa quando muore un vecchio, è una biblioteca che brucia” alle quali oppone: “Dipende dal vecchio, smettiamola con le cazzate, io mi fido solo della parola scritta”. Quindi affida a Pezzi di vetro, suo cliente fisso e amico, l’incarico di scrivere del e sul bar per conservarne la memoria.

L’incipit, visto dalla parte di Pezzi di vetro (anche questo romanzo è in prima persona), ricostruisce così l’incarico: “Mettiamola così, il padrone del bar Credito a morte mi ha dato un quaderno da riempire ed è convintissimo che io sia capace di sfornare un libro solo perché una volta scherzando gli ho raccontato di uno scrittore famoso che beveva come una spugna, uno scrittore che quando era ubriaco lo andavano a raccattare per strada”.

Il primo personaggio a essere registrato sul quaderno di Pezzi di vetro è “quello dei Pampers” così soprannominato perché in seguito alle violenze subite in carcere (è stato accusato dalla moglie di essere un pedofilo; l’ha arrestato un “poliziotto di nazionalità femminile”) è costretto a indossare ingombranti pannoloni. Segue il Tipografo, rovinato da una donna (“Pezzi di vetro, con la donna bianca non si scherza, se un giorno incontrerai una bianca, vai per la tua strada, dai retta a me”). Molti altri personaggi si succedono, alcuni più riusciti, altri meno. Tra i primi, quello di Rubinetta, una beona “con un didietro da perissodattilo” che in un brano di schietta ispirazione rabelaisiana sfida in una gara di pisciate un altro avventore. Rubinetta “quando va a pisciare sul retro del bar ci mette come minimo dieci minuti, una pisciata ininterrotta che scorre, scorre e scorre giù come una fontanella pubblica”.

L’andamento un po’ bozzettistico è riscattato da un’indubbia maestria espressiva riscontrabile soprattutto nei brani più parodistici (tra tutti il discorso del ministro dell’agricoltura in difesa del Credito a morte attaccato dalle chiese locali) e nelle torrenziali ritmatissime elencazioni. Costante l’approccio grottesco e caricaturale (un ulteriore esempio: Mama Mfoa detta la Cantatrice calva che vende spiedini di cane davanti al Credito a morte) e l’impietosa descrizione dei luoghi, tutti sempre e rigorosamente urbani: il quartiere Rex con le sue giovanissime puttane, via dei Paparini… Mai la savana, la foresta pluviale, l’Africa romantica.

Il Congo come tutti i fiumi, separa e unisce

Sull’altra sponda, nel “paese di fronte”, la Repubblica Popolare del Congo (un tempo Congo belga e poi Zaire) con la sua immensa capitale Kinshasa, è nato Fiston Mwanza Mujila, autore di Tram 83.

Fiston

Tram 83 è un bar. Come Credito a morte. Qui si incontrano tutti (“Ogni sorta di tribù invade il Tram 83 alla ricerca di una felicità a buon mercato”): studenti, minatori, prostitute (“anatroccoli” quando giovanissime; con un tipico ritornello per adescare i clienti: “Sa l’ora?”), turisti dell’Europa dell’Est, cinesi, jazzisti. Moltissimi i personaggi, due quelli fondamentali: Requiem anche detto il Negus (ma i suoi alias sono innumerevoli: un’apposita elencazione occupa due pagine) e Lucien, ex compagni di università e di ideali, l’uno diventato trafficante e ricattatore, l’altro che tenta di diventare scrittore. Anche Lucien come prima Pezzi di vetro scrive su un taccuino mentre è al Tram 83 in una continua sarabanda di prostitute, cameriere e aiuto cameriere. Compare anche un editore, Malingeau, nemico di Requiem, che si propone di pubblicare il libro di Lucien. Lo convince anche a fare un reading di poesie al Tram 83: finisce con Lucien pestato a sangue. Requiem da parte sua convince Lucien a seguirlo in una scorribanda nelle miniere che crivellano il sottosuolo della Città-Paese (Kinshasa, palesemente): con loro la “banda” di Requiem, composta da Mortal Kombat, Morbillo invincibile, Calcio di punizione. Lucien è arrestato; il commissario che “suda come una bistecca di maiale nel piatto” dice: “Adoro la musica classica. Ogni nota concorre a una speleologia, la speleologia dell’anima”. Due motti di Requiem possono fungere da sintesi: “La tragedia è già scritta, noi ci mettiamo la prefazione” e “Questo è il Nuovo Mondo, ognuno per sé e la merda per tutti”. Ancora una volta due costanti: il grottesco come unica cifra rappresentativa e l’ambientazione rigidamente urbana (il cosiddetto entroterra rimane in controluce, come ipotesi puramente teorica stiracchiata tra rimpianto e impossibilità).

Letteratura e produzione artistica congolesi, una sintonia totale

Senza pretendere che tre romanzi di due autori possano costituire un campione probante della letteratura congolese, è però interessante notare come questa produzione letteraria sia in totale sintonia con quella artistica a essa contemporanea. Per la copertina di Tram 83 è usata un’opera di Chéri Cherin (Race tenace à la terrasse).

Chéri Cherin è presente nella fondamentale mostra Beauté Congo alla Fondation Cartier pour l’art contemporain di Parigi (luglio 2015 – gennaio 2016). La mostra documenta l’arte congolese dal 1920-30 sino ai nostri giorni; dai tenerissimi acquerelli di Albert Lubaki agli esiti contemporanei. Questi soprattutto ci dicono molto. Chéri Cherin, Chéri Samba, Pierre Bodo, Moko, autodefinitisi “artisti popolari”, compongono opere che rappresentano esclusivamente o quasi la realtà urbana: feste di strada, balli, ingorghi, vetrine di negozi, interni di bar con in primo piano bottiglie di birra Polar, Primus e Skol. E poi ritratti. Come quelli dedicati ai celebri sapeur (da Sapé, société des ambianceurs et personnes élégantes), gli elegantissimi dandy africani vestiti con completi pastello, o autoritratti molto allegramente autoironici.

In sintesi: rappresentazione eminentemente grottesca e satirica; e negazione, come soggetto, dell’Africa dei leoni e degli elefanti. Anche nell’arte. Usando gli strumenti della pop art e dell’espressionismo declinati all’africana, magari con la mediazione delle fanzine di strada di Papa Mfumu’eto, l’imperatore del fumetto congolese, molto vicino al tratto sporco di Robert Crumb. Fondamentale la mostra e fondamentale il catalogo, entrambi a cura di André Magnin. Dalla lettura del catalogo (Beauté Congo – 1926-2015 – Congo Kitoko, pp. 380, 360 ill. a colori, € 47, Fondation Cartier pour l’art contemporain, Paris 2015), a ulteriore dimostrazione di quanto l’arte possa illuminare la letteratura, scopriamo che già negli anni quaranta le giovani prostitute erano chiamate caneton e il loro “richiamo” era “Tu as l’heure?”. Proprio come oggi al Tram 83.

lucaterzolo@alice.it

L Terzolo è stato lessicografo