Neil MacGregor – La storia del mondo in 100 oggetti

Due milioni di anni in quattro continenti

recensione di Enrica Pagella

dal numero di marzo 2013 

Neil MacGregor
LA STORIA DEL MONDO IN 100 OGGETTI
ed orig. 2010, trad. dall’inglese di Marco Sartori
pp. XXVI-706, 117 ill. col., € 49
Adelphi, Milano 2012

100-oggetti

Il volume nasce da una fortunata trasmissione radiofonica ideata dal quarto canale della Bbc e andata in onda nel 2010. L’autore, Neil MacGregor, è stato direttore della National Gallery di Londra ed è alla guida del British Museum dal 2002. Ogni puntata sviluppava un frammento della storia mondiale attraverso la presentazione di un manufatto proveniente dalle collezioni del British, selezionato da un team composto da curatori del museo e da redattori della radio. Il racconto, sostenuto da uno stile impeccabile di alta divulgazione, si alternava, come accade anche nei capitoli del libro, a brani scelti dalla letteratura specialistica; l’ascoltatore aveva inoltre la possibilità di accedere alle immagini dell’oggetto attraverso un sito web ancora oggi disponibile in rete. Da questa piattaforma, che intreccia con intelligenza la realtà arcaica del museo e dei suoi assetti disciplinari con la fluidità penetrante dei moderni mezzi di comunicazione, è emerso un libro particolare, trasversale nel genere e nel tema, che abbraccia due milioni di anni e che attraversa la civiltà di quattro continenti. Possiamo affrontarlo come una summa di racconti brevi che hanno per protagonisti cento oggetti (da quelli primitivi di uso comune fino a celebri opere d’arte come la Grande onda di Hokusai), oppure come un viaggio in venti tappe dedicato all’evoluzione umana dalla fine dell’era glaciale a quella della globalizzazione; ma possiamo trattare questo libro anche come un utile strumento per guardare ai musei, al loro ruolo di accompagnarci nel cammino di comprendere chi siamo e da dove veniamo, per trovare un senso e una ragione a tutto ciò che abbiamo inventato, progettato e costruito.

È una storia molto diversa da quella a cui ci hanno abituato i libri di scuola. Attraverso i manufatti il nostro pensiero è costretto a sostare anche su momenti minimi e quotidiani dell’esistenza, a coordinare epoche e aree geografiche molto distanti tra loro, a interrogarsi sul destino di grandi civiltà per le quali la parola scritta è stata un aspetto inesistente o secondario, o sulle quali pesa schiacciante il verbo e lo sguardo dei conquistatori.
Dall’Africa subsahariana emerge la fierezza e il modellato finissimo di una testa di Ife, una scultura contemporanea del nostro Rinascimento che fa parte di quelle scoperte epocali che sovvertirono i pregiudizi razziali degli anni trenta e che posero la Nigeria al fianco delle grandi civiltà dell’antico Occidente. Dal territorio di Sidney, uno scudo ovale in corteccia d’albero, abbandonato da un aborigeno sul litorale di Botany Bay, rammenta l’avanzata dei conquistatori britannici nel 1770. La cultura organizzativa dell’impero persiano scaturito dalle conquiste di Ciro il Grande affiora da un minuscolo cocchio in lamina d’oro del 500-300 a.C. che ci mostra l’efficienza dei mezzi di trasporto con cui i Satrapi amministravano un territorio immenso e diversificato per lingue, fedi e tradizioni.

Gli oggetti sfatano anche molti luoghi comuni, come quelli sulla scrittura, che nasce essenzialmente da bisogni di registrazione commerciale e di calcolo, così come le prime monete emesse da una zecca statale, quelle coniate da Creso re di Lidia nel 600 a.C., venivano a soddisfare nuovi bisogni di affidabilità nelle compravendite. Scopriamo anche che il linguaggio della Stele di Rosetta non è più emozionante di quello in uso nella nostra burocrazia europea e che la statua del faraone egiziano Ramesse II incarna esigenze di visibilità e di propaganda non molto diverse da quelle che conosciamo nella società della comunicazione di massa. Al rovescio, l’ultimo oggetto della serie, un accumulatore di energia solare fabbricato in Cina nel 2010, ci riporta all’eterno sogno di catturare la luce e alla funzione magica che gli egizi attribuivano agli scarabei, simboli di luce, portandoli con sé nell’oltretomba.

Per finire, una nota statistica. Gli oggetti provengono da una quarantina di paesi del globo e la localizzazione è facilitata dalle mappe inserite in appendice. Al primo posto svettano l’Inghilterra e la Cina con dieci oggetti, seguite da Egitto e Messico con sei e Iraq con cinque; poi Giappone, Stati Uniti, Turchia, India e Germania con quattro; Perù, Francia e Sudan con tre; Tanzania, Iran, Siria, Giava e Nigeria con due; infine tutti gli altri con un oggetto. L’Italia non c’è, se non per i riferimenti alla cultura dell’impero romano fuori dai confini della penisola. Per un refuso della traduzione anche Roma è scomparsa dall’indice dei nomi. Nell’economia del libro non significa granché, se non che forse ogni storia deve fare i conti con i pensieri dominanti del suo presente e soprattutto con la disponibilità e le ragioni dei propri archivi, siano anche quelli del museo più grande del mondo. 

enrica.pagella@fondazionetorinomusei.it

E Pagella è direttore di Palazzo Madama, Museo Civico d’Arte Antica di Torino