MetaMaus e la narrazione per immagini di Art Spiegelman

Cherchez la mère

recensione di Erik Balzaretti

dal numero di gennaio 2017

Art Spiegelman
METAMAUS
ed. orig. 2011, trad. dall’inglese di Cristiana Mennella
pp. 229, € 35
Einaudi, Torino 2016

Art Spiegelman MetaMausIl graphic novel Maus è stato probabilmente il più influente esempio di narrazione per immagini del secolo passato. Figlio di un lavoro che lo aveva impegnato dalla fine degli anni settanta, Maus rilanciò l’inesausto tema dell’Olocausto affidando al racconto sequenziale illustrato tutto il dramma della famiglia di Art Spiegelman nella Polonia nazista grazie alla testimonianza diretta del padre Vladek, collegata al presente, con l’intento di ridefinire la memoria privata all’interno di un processo di oblio collettivo. La fortuna dell’opera, che è stata pubblicata in progress sino ai primi anni novanta, testimoniata dagli innumerevoli riconoscimenti, in primis uno Special Prize del Pulitzer nel 1992, si deve a molti fattori, ma innanzi tutto a quella magia speciale che irradia i capolavori seminali, dove tutte ma proprio tutte le scommesse possibili sono vinte all’interno di un meccanismo perfetto, progettato nei minimi particolari in funzione al tema e alle modalità del racconto. Alcune di quelle scommesse quali l’uso del fumetto in modalità espressionista e underground per un racconto autobiografico a più livelli, il tema dell’Olocausto, la scelta di animalizzare le “razze” attraverso l’espediente di ribaltare Esopo e Disney, scegliendo la strada che aveva intrapreso Grandville, realizzando gli ebrei con fattezze di topi e i tedeschi con quelle di gatti, da qui “Maus” come variante felina di “Raus”, e via dicendo, la limitazione delle scene violente all’interno di una drammaturgia dell’ansia e del dolore ma anche della speranza e dell’amore, sono alla base di una narrazione innovativa e di grande impatto emotivo tanto quanto lo è stata Le Benevole (2006) di Jonathan Littell, spiazzante opera letteraria sul nazismo dal punto di vista di un nazista. Quelle scommesse hanno testimoniato che il graphic novel è un mezzo particolarmente adatto al racconto interiore, biografico e diaristico, molto simile alla canzone d’autore.

Ogni cosa è strutturata

Spiegelman è di fatto un graphic designer a cui sta a cuore anche il livello formale della proposta grafica: e sotto questo punto di vista Maus è un modello di coerenza strutturale che riesce a coniugare la forma grafica e la sostanza narrativa con un risultato che concede poco a una facile estetica, ma ne esalta il bianco e nero, che acquisisce un appeal fino ad allora riservato solo alle pubblicazioni d’altri tempi o di carattere sperimentale come la rivista “Raw” da lui diretta. Il lascito di Spiegelman è quello di essere stato un caposcuola sia per le sperimentazioni del linguaggio del fumetto dagli anni novanta a seguire, sia di essere stato la causa di moltissime pubblicazioni, un vero e proprio nuovo mercato, che sulla scia del successo di Maus hanno raccontato attraverso il modello del graphic novel non solo altre storie sull’Olocausto ma anche racconti sul dolore e sulle malattie, sulle famiglie disfunzionali, sulle fragilità umane, sui rapporti malati, sulle dipendenze, sui turbamenti adolescenziali. Temi che fino ad allora erano state raccontati solo attraverso la letteratura, il cinema e la canzone d’autore. Per quanto riguarda il tema della persecuzione degli ebrei vorrei ricordare che, senza Maus, non sarebbero mai esistiti graphic novel come Sono figlia dell’Olocausto di Bernice Eisenstein (Guanda, 2007), La seconda generazione. Quello che non ho detto a mio padre, di Michel Kichka (Rizzoli Lizard 2014), Jan Karsky. L’uomo che scoprì l’Olocausto di Marco Rizzo e Lelio Bonaccorso (Rizzoli Lizard, 2014), Noi non andremo a vedere Auschwitz di Jeremie Dres (Coconino 2012), quest’ultimo realizzato da un autore già di terza generazione che testimonia l’evoluzione della percezione del tema all’interno della comunità ebraica.

Per realizzare Maus e per sistematizzare la ricerca personale e generale sul tema Spiegelman ha messo insieme nel 2011 una grande quantità di materiali: le registrazioni del racconto del padre Vladek, documenti, immagini, disegni, interviste sull’opera e riflessioni sul mezzo fumetto. Il tutto è stato raccolto in un volume autonomo corredato di un cd navigabile, dal titolo MetaMaus. Il materiale davvero sorprendente e senza dubbio sommergente (a un primo impatto si è travolti da migliaia di schizzi, bozzetti preparatori, taccuini, supplementi supplementari, filmini e materiali di archivi), ma anche per la qualità delle parole e dei segni-immagini che sembrano non finire mai. Poi si scopre che ogni cosa è strutturata, sistematizzata per la gioia del fanatico più curioso grazie soprattutto al dialogo continuo tra Spiegelman e la sua collaboratrice Hillary Chute che permette ai lettori di trovare risposte a ogni domanda e curiosità: dalla più ingenua a quella più intellettualmente complessa. Chiunque si occupi di linguaggi narrativi e di visual art deve possedere MetaMaus come testo di riferimento critico. Tornando alla storia, ogni scelta dell’autore è sezionata e mostrata attraverso l’analisi del progetto, il procedimento teorico e pratico che ha portato alla realizzazione delle singole tavole, dei vari capitoli, delle copertine. Tutto è trasmesso in modo molto intuitivo e razionale senza mai perdere l’elemento emozionale che percorre la narrazione complessiva di Maus ma anche le motivazioni consce e inconsce dell’autore. MetaMaus è l’indispensabile complemento a Maus in quanto ci fa rivivere la storia ma ce ne racconta moltissime altre che le sono vissute intorno. E, naturalmente, MetaMaus funziona anche come spinta a leggere Maus se non lo si è già fatto o a rileggerlo un’altra volta. Se tutto questo ancora non bastasse MetaMaus mette ancora più in chiaro che la vera protagonista del romanzo Maus è la madre di Art Spiegelman, Anja, sopravvissuta al lager ma morta suicida quando Art aveva dieci anni. MetaMaus è anche la struggente ricerca da parte di un bambino, ora adulto, della madre perduta e poi intravista attraverso tutte le testimonianze possibili, visive e orali. La presenza di Anja e la sua “assenza” pervade questa sorta di mausoleo della memoria che da personale diventa collettiva. Recita un vecchio proverbio ebraico che “Le ferite guariscono ma le parole, o le loro assenze, lasciano il segno”. Altrettanto e forse di più questo vale per le immagini.

erik.balzaretti@libero.it

E Balzaretti è storico dell’illustrazione

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