Toti Scialoja nel centenario della nascita, un inedito e una mostra

Un “poeta di nascosto”

dal numero di gennaio 2015

di Eloisa Morra

SCIALOJA_topo1“Non sono le poesie di un pittore più di quanto i suoi quadri siano quadri di un poeta; cioè molto, ma non tanto da impedirne una fruizione perfettamente autonoma”. Quest’intuizione di Giovanni Raboni torna spesso alla mente di chi guardi alle due facce dell’opera di Toti Scialoja, a prima vista difficilmente conciliabili: quale legame stabilire tra nonsense e arte astratta, tra automatismo gestuale e versi dal senso perso e inaspettatamente recuperato? Di fronte alle splendide poesie illustrate di Tre per un topo, quaderno di nonsense con animali rimasto a lungo inedito e appena uscito per Quodlibet (pp. 112, € 18), viene però spontaneo tornare a porsi qualche domanda sulla doppia vocazione di un artista-scrittore unico nel panorama italiano.

Chi era davvero il “ragazzo del ’14” (la definizione è di ­Alberto Arbasino) che avrebbe compiuto cent’anni proprio questo 16 dicembre, e qual è la storia di questo album dalla copertina bianca capace di schiudere le porte di un talento rimasto a lungo sepolto? Per rispondere dobbiamo risalire al lontano 1961: è all’inizio di quell’anno che Toti Scialoja fa ritorno dal suo secondo viaggio a New York per trasferirsi a Parigi. È già da tempo un affermato pittore astratto, ma nonostante possa contare sulla stima dei migliori artisti e critici d’arte (da Dore Ashton a Philip Guston, fino a De Kooning, Afro e ­Alexander Calder) il soggiorno nella Grande Mela lo spinge a tornare in Europa nella speranza di trovare un ambiente più stimolante e ristabilire un contatto con i fili della grande tradizione espressionista dell’­Ottocento.

scialoia-gattaGli bastano poche settimane nel nuovo studio di Rue de la Tombe Issoire per capire che la capitale francese non è la sua città; eppure alla fine vi resterà per tre anni, arrivando a “pensare, parlare”, addirittura “sognare in francese”. È proprio la scorrevolezza di quella lingua straniera a rivelargli per contrasto le potenzialità dell’italiano, con le sue parole che sgusciano “come ciottoli”, e a fargli tornare una segreta voglia di scrivere poesie. Tornare, non scrivere per la prima volta, perché Scialoja avrebbe voluto fare il poeta da sempre, e ci sarebbe anche riuscito se non fosse stato per una fatale stroncatura ricevuta in gioventù (del colpevole, un “noto poeta” conosciuto nella Roma di metà anni trenta, si sarebbe sempre rifiutato di rivelare il nome).

E come spesso capita, l’occasione giusta per tornare alla poesia gli si sarebbe presentata quasi per caso: un giorno di febbraio 1961 nel suo studio parigino arriva infatti una lettera senza senso che lo diverte moltissimo. A scriverla (anzi, a dettarla alla zia Gabriella Drudi, nota critica compagna d’arte e di vita di Scialoja) è il nipotino James Demby, sei anni, che sta a Roma e si vede arrivare una risposta entusiasta: “Scrivimi ancora, le tue lettere mi interessano molto!”. Per restituire il sorriso ai suoi due destinatari lontani, Scialoja dà vita a dei piccoli inaspettati capolavori in parole e immagini, inizialmente inviati per lettera. È così che, su semplici fogli a quadretti dattiloscritti, James e Gabriella si appassionano alle poesie e alle illustrazioni che tracciano una galleria di personaggi indimenticabili: dalla sarta tartaruga alle giraffe tra le graffe, dalla zanzara di Zanzibar alla malinconica istrice che recita “parti tristi”, ­senza tralasciare il “topo senza scopo” protagonista dei versi forse più noti tra gli happy few amanti del poeta. “Topo, topo / senza scopo / dopo te / cosa vien dopo?”; parafrasando il famoso incipit, cosa vien dopo?

scialoja-6Nel 1964 Scialoja fa ritorno a Roma, dove continua a scrivere e illustrare nonsense per le altre sue due nipotine, Barbara e Alice Drudi. È pensando a loro (e a James, ormai cresciuto) che nel 1969 Scialoja decide di raccogliere i disegni e le poesie per farne un piccolo libretto artigianale. Il titolo, Tre per un topo, non lascia dubbi: se il topo è in ­realtà Toti stesso, come del resto si intuisce anche da un indimenticabile nonsense (“Quando il sorcio / beve un sorso / di fernet / si contorce / dal rimorso / d’esser me”), i tre animaletti in copertina rappresentano i nipoti-bambini, che erano soliti mettere in scena le poesie per il divertimento degli zii e degli amici. Di mano in mano il libretto artigianale era arrivato fino all’occhio attento di Emanuela Bompiani, che (consigliata da Ginevra Bompiani) ne aveva apprezzato immediatamente “il gusto della parola e dell’allitterazione”, e aveva proposto al poeta-pittore di rivedere le immagini in vista della pubblicazione nella collana per l’infanzia da lei curata per Bompiani; pochi mesi dopo viene stampato il primo (e oggi davvero introvabile) libro di Scialoja, Amato topino caro. A quel volume seguono, nel corso degli anni settanta, La zanzara senza zeta (Einaudi, 1974), Una vespa! Che spavento (Einaudi, 1975), Ghiro ghiro tonto (Stampatori, 1979).

Pur dovuta al caso, l’avventura editoriale di Scialoja non era certo un’eccezione nel panorama italiano: molti dei libri illustrati di allora erano caratterizzati da un misto di occhio per l’altrui talento e amore per la sperimentazione tipico di diverse iniziative dei primi anni settanta, un’età dell’oro documentata dalla mostra a Roma (Palazzo delle Esposizioni, 20 marzo-20 luglio 2014) I nostri anni Settanta. Libri per ragazzi in Italia (a cura di Silvana Sola e Paola Vassalli, pp. 218, € 24, Corraini, Mantova 2014). I libri di Scialoja erano accostati alle maggiori testimonianze grafiche di quel fortunato decennio: dai “libri-progetto” di Bruno Munari alle realizzazioni di Iela Mari, fino alle variopinte illustrazioni di Lele Luzzati e Grazia Nidasio. Ma se a Toti non mancava né la tecnica né la volontà di giocare dei suoi colleghi, molto diversa è la ricezione delle sue poesie (fra cui quelle della raccolta Versi del senso perso, pubblicata da Einaudi nel 2009): fin da subito è stato considerato un poeta per bambini e per grandi, presto salutato da Italo Calvino come “il primo vero esempio italiano di un divertimento poetico congeniale alla straordinaria tradizione inglese del nonsense e del limerick”.

Toti Scialoja

Le immagini giocano a questo proposito un ruolo essenziale, e tanto il catalogo della mostra quanto Tre per un topo hanno il merito di restituirci uno Scialoja “a tutta pagina”. L’accostamento (finora mai messo in pratica) tra l’album e i libri stampati tra il 1971 e il 1975 avrebbe messo in risalto l’unicità dell’inedito, che raccoglie quasi tutte le poesie poi pubblicate ma dà ai lettori molti piaceri in più: il primo è scoprire uno Scialoja in veste di grafico, che sperimenta colori, dispone e varia la grandezza dei caratteri allo stesso modo in cui si diverte a giocare con le sillabe. Il secondo è rivedere finalmente i versi uniti alle immagini: perché, come ricorda Alice, “a che serve un libro senza figure?” Si aggiungono poi al bestiario dodici inediti ritratti animaliste: e, che si tratti dell’aringa bilingue o delle faine di Faenza, ci si trova sempre davanti a quel prodigioso perdersi e riaffiorare del senso che oltrepassa i confini del nonsense per diventare poesia.

eloisamorra@fas.harvard.edu

E Morra è dottoranda in letteratura italiana alla Harvard University

Save

Save