David Armitage e Jo Guldi – Manifesto per la storia

“Storici di tutti i paesi, unitevi!”. Ma per cosa?

recensione di Francesco Cassata

dal numero di luglio/agosto 2017

David Armitage e Jo Guldi
MANIFESTO PER LA STORIA
Il ruolo del passato nel mondo d’oggi
ed. orig. 2014, trad. dall’inglese di David Scaffei
pp. 262, € 22
Donzelli, Roma 2016

David Armitage e Jo Guldi - Manifesto per la storiaPubblicato in open access nel 2014 dagli storici statunitensi David Armitage e Jo Guldi, The History Manifesto ha innescato un intenso dibattito internazionale, a dimostrazione dell’importanza cruciale del tema affrontato: quale ruolo pubblico ha la storia nel mondo contemporaneo? La disciplina può ancora essere rilevante nella formazione delle classi dirigenti? Gli storici hanno qualche possibilità di scuotere “le tranquille certezze dei cittadini, dei responsabili politici e dei potenti”? Per rispondere a queste domande, il manifesto di Armitage-Guldi si articola lungo tre concetti chiave: in primo luogo, l’identificazione della longue durée come prospettiva metodologica in grado di condurre la storia fuori dallo stato di subalternità disciplinare, politica e accademica in cui sarebbe caduta; in secondo luogo, la condanna senza riserve della “microstoria” e dello short-termism, individuati come principali responsabili dell’emarginazione della storia dal discorso pubblico e politico; infine, l’assunzione metodologica dei big data come sorgente rivivificante per una storiografia transnazionale e trans-temporale in grado di affrontare in chiave anti-teleologica e anti-deterministica i cogenti temi della disuguaglianza economica, del cambiamento climatico e della governance internazionale.

Ma quale livello di attendibilità hanno queste assunzioni? Davvero la storia è in crisi? E questa crisi ha realmente i tratti delineati dall’History Manifesto? Partiamo dal primo punto, la fortuna (o meno) della longue durée. Come hanno dimostrato Deborah Cohen e Peter Mandler nell’aspra recensione pubblicata sull’“American Historical Review” (AHR Exchange), i dati di Benjamin Schmidt su cui si fonda l’assioma iniziale di Armitage-Guldi – la crisi della storia come frutto dell’abbandono della “lunga durata” da parte degli storici – non sembrano affatto supportare le conclusioni dei due autori dell’History Manifesto. Anzi. Lo studio di Schmidt sugli archi cronologici di circa ottomila tesi di dottorato pubblicate negli Stati Uniti a partire dal 1880 mostra un aumento costante delle lunghezze temporali a partire dalla metà degli anni sessanta. E nessuna inflessione emerge negli anni duemila, laddove invece – secondo Armitage e Guldi – si sarebbe dovuto registrare un “ritorno” alla lunga durata. Cohen e Mandler hanno inoltre tentato di verificare questa tendenza analizzando le recensioni pubblicate dall’“AHR” in otto anni campione nel corso di ottant’anni, scegliendo rispettivamente quattro anni inclusi nella long-horizon history di Armitage-Guldi (1926, 1936, 1956 e 1966) e altri quattro in quella che gli autori del manifesto hanno definito come l’era dello Short Past (1976, 1986, 1996, 2006). E anche in questo caso i risultati sono chiari: dopo il 1975, gli anni coperti dagli oltre 1100 libri recensiti sono aumentati con continuità, e la mediana è più che raddoppiata dal 1966 al 1986. A conclusioni simili è pervenuta Claire Lemercier per il caso francese, a partire da una base dati rappresentata dalle tesi di dottorato catalogate dal Conseil National des universités. Prendendo in esame non soltanto le date presenti nei titoli (1939-1945, ad esempio), ma anche le designazioni più generali (ad esempio, Ancien régime oppure époque coloniale), Lemercier ha ricostruito un quadro molto più sfumato e complesso, in cui soltanto il 20 per cento dei lavori copre un arco cronologico inferiore ai vent’anni.

Se dunque uno spettro si aggira davvero per la nostra epoca, esso non sembra avere le sembianze del breve termine. Le evidenze quantitative – tanto care ai due autori – vanno in tutt’altra direzione. Ma cosa s’intende per “breve termine”, fonte – secondo Armitage e Guldi – di tutti i mali in cui sarebbe piombata la disciplina a partire dal 1968 fino almeno al 2000? Senza alcuno scavo nella storia della storiografia nei decenni centrali del Novecento, l’History Manifesto invoca le politiche identitarie degli anni settanta, o la rivolta edipica delle giovani generazioni di storici contro i “padri” troppo coinvolti nelle istituzioni, o ancora la contrazione del mercato del lavoro universitario, per  attaccare una “microstoria” definita in termini assai vaghi, quando non ridicolizzata come studio iper-sofisticato di un esemplare particolare del passato o scavo archivistico fine a se stesso. Fino a generalizzazioni che suonano così: “A parte poche eccezioni, le classiche ricerche condotte negli anni settanta, ottanta e novanta si concentravano su un particolare episodio: l’individuazione di uno specifico disturbo psicologico, ad esempio, oppure l’analisi di una particolare sommossa di lavoratori”. Quasi che i lavori di Natalie Zemon Davis, di Robert Darnton, o di Joan Wallach Scott fossero riducibili a meri scavi di eventi di modeste dimensioni, e non costituissero invece fondamentali mutamenti di prospettiva, tanto metodologica quanto interpretativa. L’interpretazione di questa fase storiografica come di un’unica, indistinta ritirata dall’ampio respiro della longue durée contrasta poi con elementi fattuali quali l’emergere, nello stesso periodo, della global history, della storia ambientale, o di una storia della scienza e della tecnologia sempre più interessate alle scale temporali lunghe. E anche l’impatto politico del cultural turn nell’ambito della battaglia per i diritti civili, nella preservazione dell’ambiente o nella lotta al razzismo e all’antisemitismo (per citare solo alcuni esempi), dagli anni sessanta a oggi, rimane del tutto in sordina in queste pagine.

Il riferimento conclusivo ai big data e al rapporto tra digital history e longue durée non migliora il quadro. Basandosi essenzialmente su Ngram Viewer e su Paper Machines (un’estensione open source di Zotero), ovvero su strumenti di digitalizzazione di ampi corpi testuali, i due autori di fatto celebrano i potenziali benefici della “lettura a distanza” teorizzata da Franco Moretti, senza tuttavia esplorare le profonde questioni metodologiche già introdotte dalla storia quantitativa francese negli anni ottanta e novanta. Perché il distant reading abbia reale efficace probativa, è infatti necessario costruire adeguatamente un corpus testuale che risponda a una precisa ipotesi di ricerca, non basta accumulare e amalgamare il più ampio numero possibile di testi. Al contrario, occorre risolvere i rischi di anacronismo connessi all’insuperabile storicità delle categorie analizzate nel lungo periodo e sviluppare una riflessione teorica sui modelli di causalità e temporalità.  Non dialogando metodologicamente con gli scienziati sociali e con gli economisti; inventandosi l’equivalenza “lungo = significativo”; e occultando completamente la rilevanza della public history a livello internazionale, il manifesto di Armitage-Guldi assume i contorni di un’invocazione anacronistica, incapace da un lato di individuare i termini strutturali della crisi in corso, e dall’altro di valorizzare la ricchezza e le potenzialità effettive della disciplina. Le ultime battute vanno all’edizione italiana.

Bene ha fatto Donzelli a tradurre un libro che ha circolato molto all’interno della comunità degli storici, ma che meritava di essere portato a conoscenza del vasto pubblico dei “non addetti ai lavori”. E la ricca introduzione di Renato Camurri istituisce abilmente alcune connessioni con i dibattiti interni alla storiografia italiana. Ma se un aspetto positivo dell’History Manifesto è proprio da individuarsi nella critica alla parossistica moda delle “svolte” storiografiche degli ultimi decenni, la sua lettura non può che risultare assai straniante alla luce di un contesto storiografico come quello italiano, nel quale le suddette “svolte” hanno avuto vita breve o sono ancora scarsamente riconosciute, con una “storia sociale” ormai in via di estinzione, una “storia culturale” a tutt’oggi fortemente discriminata, una “storia globale” priva delle risorse necessarie al suo pieno sviluppo. In questa situazione, abbiamo davvero bisogno di un Manifesto così presentista e futurologico?

francesco.cassata@unige.it

F Cassata insegna storia contemporanea all’Università di Genova