Un paese sotto shock: il Regno Unito dopo il referendum

Come domestici di una magione vittoriana

di Florian Mussgnug

dal numero di settembre 2016

«Ci hanno restituito il paese» scrive un amico londinese su Twitter qualche minuto dopo che l’Islanda elimina la nazionale inglese dagli Europei 2016, «ed è più mediocre di prima». Il riferimento sarcastico al nazionalismo della campagna referendaria è ovvio, e anche l’amarezza nel vedere uscire l’Inghilterra dall’Europa «per la seconda volta», come dissero in molti in quei giorni. Appena quattro giorni prima, la Gran Bretagna aveva votato, con una maggioranza risicata ­­­­(52 per cento contro 48 per cento), per uscire dall’Unione Europea, contro il parere quasi unanime degli esperti. C’erano state spaccature chiare nell’elettorato: mentre in Inghilterra e nel Galles la maggioranza aveva votato per la Brexit, Scozia e Irlanda del Nord avevano scelto di rimanere nell’Unione Europea, come del resto Londra. Il sostegno per l’Europa era stato largo tra le fasce più ricche e colte della popolazione, tra gli abitanti delle grandi città e tra i giovani. Una campagna referendaria odiosa e viziata – guidata da leader poco convincenti o poco convinti – aveva scatenato passioni forti e contrastanti e aveva messo a nudo le speranze e le paure del paese. A distanza di mesi, la politica britannica stenta ancora a trovare un linguaggio per dar voce, in maniera responsabile, a tali emozioni.

Brexit

Le immediate dimissioni di David Cameron hanno provocato alcuni garbati messaggi di ringraziamento, in parlamento e nei media, e alcune critiche formulate con cura. Tali dichiarazioni esprimono davvero l’umore attuale, le opinioni e i sentimenti su un leader politico che per risolvere una disputa di partito ha intenzionalmente messo a rischio il futuro del Regno Unito e dell’Europa? Nella conferenza stampa seguita alle dimissioni e nel discorso di addio al parlamento Cameron ha trovato le parole giuste per spiegare perché non poteva più stare alla guida del paese; adesso però è responsabilità dei suoi successori, e dell’opposizione, affrontare le preoccupazioni di un’intera nazione e dare un significato retrospettivo a un plebiscito dalla finalità dubbia, il cui risultato sembra aver lasciato sorpresi anche coloro che hanno votato per lasciare l’Unione europea.

Che cosa possiamo imparare da questa crisi politica? La romanziera nigeriana Adaobi Tricia Nwaubani commenta: «Gli africani possono apprezzare il fatto che non è necessario far melodrammi quando giunge il momento di lasciare un incarico». Piuttosto che «aspettare proteste di piazza o appelli infiniti delle Nazioni Unite», possono seguire l’esempio di David Cameron e «dimettersi con grazia». Nwaubani è una romanziera satirica di talento, celebre per le sue raffigurazioni taglienti della vita politica, ma in questo caso mi pare che sbagli il bersaglio. Ciò di cui ha bisogno la Gran Bretagna in questo momento non è una dose maggiore di decoro politico. Al contrario, il paese deve trovare il tempo e la voglia per un dibattito più appassionato, più aperto e capace di coinvolgere tutti intorno al referendum e intorno alla questione su cosa significherà vivere in un paese spaccato. Seguendo l’esempio di Nwaubani, proviamo a immaginare come una crisi politica di tale portata sarebbe stata vissuta in altri paesi. Prendiamo in esame, per contrasto, gli stili del dibattito politico in altre parti d’Europa: gli intellettuali francesi amano i pamphlet dalle parole forti; agli italiani piace continuare a difendere la loro posizione pubblicamente anche quando hanno perso; gli scandinavi, amanti del consenso, si sottopongono a sedute estenuanti pur di raggiungere l’unanimità. In Germania, secondo un adagio noto come legge di Godwin, i dibattiti vanno avanti fino a quando un partecipante dà del nazista a un altro; a questo punto la controversia ha fine e l’autore della reductio ad Hitlerum automaticamente perde la disputa.

Questione di condotta appropriata

Anche la cultura britannica, celebre per la sua abilità retorica, ha le sue peculiarità. La secolare, illustre tradizione delle debating societies continua a influenzare la vita pubblica a tutti i livelli, dalle associazioni studentesche alle case del parlamento, dalla tv nazionale alle assemblee più ordinarie. Colpiscono in particolare due tratti: la profusione di verve e humour, e l’atteggiamento di perfetta equanimità che prevale anche dopo le discussioni più accese. In un paese che si fa vanto del suo spirito sportivo e del suo fair play, perdere una battaglia, per quanto importante, è anche una questione di condotta appropriata. Addurre scuse per la propria sconfitta è considerata mancanza di stile; dichiarare che l’avversario ha barato è inaccettabile; borbottare sotto i baffi è appena perdonabile. Per la sorpresa di un europeo continentale, salire sulle barricate non è considerata un’opzione possibile.

L'ex Primo ministro inglese David Cameron

L’ex Primo ministro inglese David Cameron

Questo spiega, in certa misura, la reazione dell’élite politica britannica al risultato del referendum e alla crisi costituzionale che ne è seguita. Data l’enormità delle questioni in gioco e i livelli di ansia e shock per tutto il paese, un periodo prolungato di incertezza sembrava inevitabile. La nuova prima ministra, invece, ha già intrapreso l’incarico con ferrea determinazione e ha dichiarato che «Brexit significa Brexit e ne faremo un successo». Tale lapidario truismo ci dice poco sul modo in cui Theresa May, ex sostenitrice del Remain, intende definire il nuovo ruolo della Gran Bretagna in Europa e nel mondo. Tuttavia le sue parole contengono un messaggio chiaro: la discussione è chiusa e bisogna accettare con grazia il risultato. Non si deve mettere in dubbio la legittimità del referendum, anche se questo ha danneggiato la reputazione della democrazia parlamentare britannica e potrebbe scardinare alcune delle sue più gloriose istituzioni. In contrasto con la prima ministra, molti scrittori e intellettuali britannici hanno trovato parole appassionate per descrivere i loro sentimenti. «Per me, inglese europeo da sempre, questa è la più grande sconfitta politica della mia vita», scrive lo storico Timothy Garton Ash. E aggiunge: «Mi sembra un giorno tanto brutto quanto fu bello il giorno in cui cadde il muro di Berlino. Temo che segnerà la fine del Regno Unito» (The Guardian).

La scrittrice Ali Smith ha dichiarato: «Brexit è un incubo dal quale sto ancora cercando di svegliarmi». Ian McEwan, uno degli autori britannici più amati, dipinge un quadro particolarmente cupo: con il partito laburista in preda allo scompiglio e l’opinione pubblica paralizzata dall’ansia, il futuro politico del Regno Unito è nelle mani di un pugno di politici conservatori, mentre tutti gli altri sono ridotti al ruolo di spettatori impotenti, come domestici in una magione vittoriana: «è difficile scuotersi di dosso quella sensazione da sottoscala» scrive McEwan. «Noi cremlinologi possiamo solo ipotizzare quello che succede nei club di St James o nelle case di campagna dell’Oxfordshire. Sappiamo però che quella che da ogni parte viene definita la più grave crisi politica della nostra generazione è una creatura messa al mondo dal partito conservatore». Gli imminenti negoziati tra la Gran Bretagna e l’Ue saranno ardui e lunghi; richiederanno chiarezza, abilità e competenza. Decisioni importanti dipenderanno da questioni legali che non sarà facile spiegare ai non specialisti. Per la maggioranza dei cittadini britannici si preparano mesi di ansia e attesa impotente, mentre il nuovo governo renderà nota la sua interpretazione della volontà politica del popolo. È necessario avere fiducia nella competenza dei leader politici, ma non possiamo accettare ciecamente le loro decisioni. E soprattutto dobbiamo guardare con sospetto a questo nuovo paternalismo che, ironia della sorte, ha molto in comune con il populismo della campagna referendaria, e non solo nella figura di Boris Johnson.

Amarezza e preoccupazione sono particolarmente forti tra gli europei che vivono e lavorano in Gran Bretagna, ma a cui non è stato concesso il diritto di votare nel referendum. Vilipesi dalla campagna Leave come un peso per la nazione, molti di loro hanno scelto la Gran Bretagna perché vedevano in questo paese un raro esempio di società aperta e inclusiva, di multiculturalismo e meritocrazia. È proprio quest’idea di Gran Bretagna – «faro di tolleranza», nelle parole dello storico Simona Schama – che, tra lo shock e l’incredulità generale, sembra essere in gioco oggi. Vale dunque la pena di ricordare, in questo momento drammatico, come la Gran Bretagna è stata per secoli una seconda casa per espatriati di ogni angolo del pianeta: una società fatta di diversi gruppi etnici, ciascuno con la sua cultura, fede e spesso anche lingua. Vedere questa tradizione minacciata all’improvviso è un grave segnale d’allarme che non possiamo permetterci di ignorare.

f.mussgnug@ucl.ac.uk

F. Mussgnug insegna letteratura italiana allo University College di Londra

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