Emanuela Canepa: un estratto da “L’animale femmina”

Emanuela Canepa è la vincitrice della XXX edizione del Premio Italo Calvino

Incipit

La donna che stira ossessivamente è mia madre.

Fa il primo giro di lenzuola piegandole a metà per il lato della lunghezza. Le appoggia sull’asse e lascia che scivolino come la pasta all’uovo quando esce dal rullo. Prima le stende con le mani, liscia le pieghe, anche le minime imperfezioni, poi preme il ferro con energia, come se il lenzuolo si fosse macchiato di qualche colpa che deve scontare. Davanti e dietro; da cima a fondo, e in senso contrario, risalendo verso l’alto.

Si allontana di un passo, le guarda, sospira. Ha sempre avuto il passo pesante, il gesto imperioso, la concentrazione livida di quelli che hanno in mente un scenario definito nei dettagli prima di mettersi all’opera, e non ammettono variazioni rispetto al pronostico. La parola resilienza per mia madre è una bestemmia, e la forza di carattere si misura dalla tenacia con cui ti opponi al senso della vita e la prendi per le corna schiacciandole il muso a terra finché non ti dà esattamente tutto quello che ti aspetti. E quando non succede, è l’inferno.

Quindi si avvicina di nuovo all’asse da stiro, piega ancora le lenzuola, e riduce la superficie della metà.

Ricomincia da capo: una fascia per volta. Le liscia con le mani, passa il ferro davanti e dietro, si allontana, sospira, e torna. Lo piega ancora, e riprende.

Quando l’involto delle lenzuola ha raggiunto il perfetto spessore di un centimetro e mezzo, finalmente si avvia alla conclusione. Ripassa il ferro sul lenzuolo davanti e dietro. Si allontana, guarda, sospira. A volte aggrotta le sopracciglia che si avvicinano fino a diventare una linea unica. E torna.

Può anche capitare che non sia soddisfatta di quello che vede. Allora fa una smorfia, una specie di sorriso sghembo, gli occhi le diventano due fessure. Afferra le lenzuola piegate e le squaderna un paio di volte con uno schiocco secco. Se le finestre sono aperte per far circolare l’aria, la corrente le gonfia come una vela prima che si adagino di nuovo sull’asse, ubbidienti. Poi ricomincia da capo. Continua fino a quando non è perfettamente a posto, proprio come se l’era immaginato prima di cominciare.

Non vuole un lenzuolo stirato. Vuole l’idea platonica di un lenzuolo stirato. E quando ha finito lo appoggia sul tavolo del salotto con delicatezza estrema, come se fosse un cristallo. Fa un sospiro. E riattacca col successivo. Una volta alla settimana. Tutte le settimane.

L’ho guardata per anni, di nascosto, da una fessura della porta della mia camera. Mi ipnotizzava, perché non fa così solo con le lenzuola. Lo fa con tutto, la sua è una psicosi zen. Riesce a disinstallarsi la coscienza caricando al suo posto un software operativo di annichilimento interiore. Si muove per casa come teleguidata da un radar, convinta che la confusione abbia una sua qualità intrinsecamente immorale che va estirpata, e dovunque scorge l’ombra del caos, interviene ricostituendo l’ordine primigenio. Non so spiegarmi come fa a resistere, insensibile a qualsiasi input esterno, continuando in quel modo per ore, giorni, anni.

Da bambina non facevo altro che aspettare che puntasse gli occhi su di me. Non è che mi trascurasse, al contrario. Non mi ha mai fatto mancare niente. Ma non mi guardava mai. Ogni atto di cura veniva messo in pratica con la stessa perfezione meticolosa del resto, con la mente già proiettata all’incombenza successiva. Infilarmi una maglietta o preparare la base del soffritto erano attività che implicavano lo stesso grado di coinvolgimento. Io non facevo mai la differenza. Quando ero pronta per uscire e mi chiudevo la porta di casa alle spalle – il grembiule stirato col fiocco blu, la cartella sulle spalle, il sussidiario rilegato e la merenda nel cellophane – nella sua lista mentale ero solo una voce spuntata.

Ho provato a distoglierla, ma non avevo mezzi. La mia devozione già allora era di tipo piuttosto definito. Non sono mai stata una di quelle che per farsi notare pianta casini. Né allora, né dopo. Piuttosto cerco di meritare di essere amata. La mia è sempre stata la via dell’ubbidienza.

A un certo punto ho capito che continuare a sperare era solo una scelta tossica. A partire dai quattordici anni nella mia testa ha cominciato a prendere forma un pensiero spontaneo e ossessivo di cui mi vergognavo a morte, ma che non riuscivo a censurare: “Devo andarmene da questa casa o mi verrà una brutta malattia”.

Per molto tempo non ho avuto il coraggio di farlo. Poi mi sono detta che dovevo tentare, e alla fine, non so bene come, ci sono riuscita. Perché sapevo che là dentro sarei morta. E io invece volevo vivere.