Andrea Donaera – Io sono la bestia

Guardie e ladri

di Gaetano de Virgilio

Andrea Donaera
IO SONO LA BESTIA
pp. 226, € 16,
NN, Milano 2019

Donaera ha pubblicato già molti versi (è presente nell’ultimo Quaderno di poesia contemporanea di Marcos y Marcos), e forse è per questo che in Io sono la bestia la prosa insapona la schiena della poesia. La lingua usata è figlia di un sussulto, di un afflato, di una piega verticale nel respiro di chi parla e di chi legge. Amore e violenza, senza citare Bianconi.  Per questo romanzo si è parlato di noir pugliese, di Sacra Corona Unita, di Gallipoli, ma tutte queste sono chiavi per aprire delle porte di un ripostiglio, e il materiale messo nei ripostigli dopo anni, nel migliore dei casi, viene smaltito. A noi basterà una cornice nella quale inserire gli eventi: c’è un ragazzino che si chiama Michele che si butta dal settimo piano, e si butta dal settimo piano perché la ragazza di cui era innamorato, Nicole, appena vede il quaderno di poesie scritte apposta per lei, invece di ringraziare il ragazzo, scoppia a ridere; Michele, però, ha un padre, che si chiama Mimì, che è un boss della Sacra Corona Unita, e quando il padre sa che il figlio è morto per una ragazza, mette la quarta, e appiccia la miccia della storia. Il libro inizia con un botto, c’è infatti Mimì che spara al centro della bara mentre schizzano via pezzi di legno, e mentre spara ha i denti stretti e pretende che tutti escano dalla stanza in cui è riposta la bara. A far da scenografia ci sono i thermos di caffè e l’aria smossa dai ventagli delle donne, un tipico funerale del Sud. Il genere noir, l’organizzazione criminale salentina, il background fatto di sterrati e casolari sono pretesti, pur necessari, per mettere su l’impalcatura della trama (non dimentichiamo che Sergio Leone cercava i volti dei suoi film nelle terre tra Manduria, Sava e Avetrana).

Le voci della storia – molte, diverse, una per ogni personaggio – si rincorrono, costituendo le spine dorsali caratterizzanti, una voce per Mimì, una per Nicole, una per Michele, una per Veli (che tanto ricorda lo Smerdjakov di Dostoevskij). Tutti personaggi che hanno paura, che sono in un tempo solo carcerieri e prigionieri, guardie e ladri di un ideale e di un corpo. Donaera fa l’unica cosa che uno scrittore esordiente dovrebbe saper fare: tenere il polso di una storia. Basta questo per non essere un fungo tra i funghi, per farsi cogliere, per avere il gusto di un porcino e non di un piopparello, di un cimballo e non di un cantarello. Tenere il polso di una storia, seguire gli avvenimenti, conoscere i personaggi, non strafare, addomesticare il coniglio che è chiuso nel cilindro della trama. L’autore strizza l’occhio ad Omar di Monopoli, ma stringe la mano ad Andrea Piva e a Niccolò Ammaniti, per non parlar del fatto che se guarda in alto vede Faulkner, D’Arrigo e i loro congegni linguistici. Ammaniti è uno che la gioventù cannabile se l’è mangiata proprio per questo; perché, romanzo dopo romanzo, è riuscito a tenere in mano le redini delle storie che raccontava. Ogni lettore, in fondo, non cerca altro.

gaetano.devirgilio@gmail.com

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