Benedetta Tobagi – Piazza Fontana | Primo Piano

Noi sappiamo. Ovvero la forza della Repubblica

di Andrea Casalegno

Benedetta Tobagi
PIAZZA FONTANA
Il processo impossibile
pp. XVI + 426, € 20,
Einaudi, Torino 2019

Benedetta Tobagi, che aveva tre anni quando suo padre, il giornalista Walter Tobagi, venne assassinato da alcuni miserabili che intendevano così candidarsi all’ammissione in una più sperimentata banda di assassini, è con Mario Calabresi, Umberto Ambrosoli, Sabina Rossa, Nando dalla Chiesa una delle persone eccezionali che hanno saputo trasformare in impegno civile la propria tragedia. Ultimo suo impegno è la ricostruzione di tutte le indagini e i processi che seguirono la strage del 12 dicembre 1969 alla Banca nazionale dell’agricoltura di Milano e del loro contesto storico e politico. Questo libro è un grande saggio di storia contemporanea, un capolavoro. Eccezionali la mole e l’acribia della ricerca, attraverso migliaia di pagine di atti giudiziari, quotidiani, periodici, libri, testimonianze. Eccezionale la resa letteraria: non era facile trasformare in narrazione ordinata e avvincente una materia tanto arida e complessa. Eccezionali l’equilibrio, la completezza, l’affidabilità della ricostruzione, scevra da qualsivoglia banalizzazione ideologica, interpretazione precostituita o schematica, ipotesi riduttiva o non suffragata da fatti inoppugnabili. Un solo appunto: è inconcepibile e grida vendetta che a un libro come questo, magnificamente annotato, manchi l’indice dei nomi!

Noi contemporanei di quegli eventi eravamo convinti di saperne abbastanza. Invece no: ne sapevamo ben poco. Avevamo capito, certo, a che cosa miravano le stragi: alla realizzazione di una svolta autoritaria che bloccasse da un lato le lotte sociali, dall’altro l’avvicinamento al governo del Partito comunista. Ci era ben chiaro che all’immondo disegno contribuirono attivamente, in parte per spontanea convergenza antisistema, in parte perché tollerate, favorite e pilotate dagli strateghi della tensione, gli attentati delle bande sedicenti rivoluzionarie. Quel disegno fallì grazie all’intelligenza e alla buona volontà della maggioranza degli italiani. Ma a quale prezzo! Del disegno e dell’esecuzione ci sfuggivano però i particolari, che in questa come in ogni altra vicenda storica sono l’essenziale. I più avevano prestato fede alla “vulgata rassicurante dei servizi segreti deviati”. E invece, come dimostra questo libro, “la cancrena coinvolse molte più articolazioni” dello stato italiano, documenta quanto fosse vasta e pervasiva non solo la complicità con le “trame nere”, la copertura degli assassini attraverso i continui depistaggi, ma la vera e propria ideazione e direzione delle stragi: che attraverso il massacro di decine di innocenti da addossarsi, fabbricando prove false, a gruppi di estrema sinistra miravano a “creare il caos” (citazione letterale di un documento riservato di provenienza Usa) e di conseguenza un regime autoritario fascista o parafascista.

In modo altrettanto inoppugnabile la ricerca documenta però anche l’importanza storica, e non solo giudiziaria, del lavoro svolto tra estreme difficoltà e infiniti ostacoli dalla magistratura. O meglio: da quei magistrati che non si lasciarono condizionare dall’influenza, dalle pressioni, dai ricatti degli apparati istituzionali – polizia, forze armate, politici – non “deviati” ma compiutamente organici a una strategia ferocemente avversa alle lotte e al progresso sociale, nonché alla Costituzione. All’indomani della strage è l’Ufficio affari riservati a tenere in pugno, in modo irrituale e illegale, le fila delle indagini, che vengono orientate verso una “pista anarchica” già accuratamente predisposta (si voleva anche coinvolgere Giangiacomo Feltrinelli, ma la cosa non riesce). Da principio i magistrati si accodano. L’ufficio del pubblico ministero è gerarchico e i superiori, succubi del potere politico e poliziesco per abitudine o per convinzione, avocano a sé immediatamente le indagini che spetterebbero a giovani sostituti. Ma per una serie di contrattempi e casi fortuiti la falsa pista s’incrina fin dai primi giorni. Chi conosce Pino Pinelli capisce fin dal primo istante che è stato incastrato, e non può credere al suo suicidio (il questore di Milano, ex-direttore fascista del carcere di Ventotene, ha la spudoratezza di inventare che Pino si è gettato dalla finestra gridando: “È la fine dell’anarchia!”). Chi ha una coscienza si mobilita per confutare le menzogne che tentano di infangarne la memoria.

Uno degli stragisti, Giovanni Ventura, si vanta del progetto eversivo (la bomba del 12 dicembre è stata preceduta da quelle sui treni e alla Fiera di Milano della primavera precedente: anch’esse imputate agli anarchici dall’Ufficio affari riservati) con un ex-compagno di collegio, il professore di scuola media Guido Lorenzon; che non se la sente di tacere. La commessa di una valigeria di Padova riconosce in foto una borsa di pelle: è una delle quattro che ha venduto a Franco Freda (è la borsa che nascondeva l’ordigno che doveva esplodere alla Banca commerciale, fatto poi deflagrare per un ordine incomprensibile, o meglio, anche troppo comprensibile: ma si salva una fotografia). La pista alternativa viene sabotata e insabbiata, le prove soppresse o ignorate. Finché dura. Ma l’Italia era ed è una democrazia. Non tutti i funzionari di polizia, non tutti i magistrati sono consustanziali al sistema di potere ereditato dal fascismo. Alcuni giovani magistrati oltre ad aver letto la Costituzione intendono servirsene. Qualche alto magistrato, come Luigi Bianchi d’Espinosa e Adolfo Beria di Argentine, li sostiene. Ci sono poliziotti che sentono di dover rispondere ai cittadini, non solo ai loro superiori. Si cerca in tutti i modi di neutralizzarli, ma non sempre con successoLa lettura si fa appassionante. I vertici della magistratura, Corte di cassazione in testa, fanno di tutto per avallare la falsa pista. La Corte sposta il processo da Milano a Catanzaro, suscitando l’indignazione impotente della città ferita e dell’intero paese. Eppure contro ogni aspettativa, superando difficoltà di ogni genere, il processo si conclude in primo grado con la condanna dei veri colpevoli. I giudici e i giurati di Catanzaro hanno salvato l’onore del paese.

La sentenza viene criticata da sinistra perché non ha saputo risalire ai mandanti: come se il processo penale potesse andare oltre il giudizio sulla responsabilità degli imputati. Per fortuna l’autrice, inappuntabile per competenza giuridica (giudizio non sempre applicabile a cronisti e commentatori di vicende giudiziarie), rimette le cose a posto, riconoscendo l’immenso lavoro, l’equilibrio e il coraggio della Corte d’assise di Catanzaro.

Ma siamo solo agli inizi. Il processo di appello assolverà tutti gli imputati, mettendo sullo stesso piano assassini e innocenti calunniati, poiché il processo ha unificato le indagini contro gli anarchici e i fascisti. E soltanto dopo l’assoluzione definitiva in Cassazione, che rende non più imputabili Freda e Ventura per lo stesso fatto, un terzo processo (2001-2005) stabilirà che Freda e Ventura sono colpevoli, senza poterli condannare. Tutto inutile? Al contrario! Accertare la verità, sia pure nei limiti segnati dalle norme procedurali, è non meno ma più importante della punizione. Il giudice, volente o nolente, si fa storico. Freda è un assassino in libertà? Buon per lui, se la giustizia non ha potuto fare di più. Ma noi sappiamo. Anche noi siamo liberi: il disegno suo e dei suoi burattinai è fallito. Non ha vinto Freda: hanno vinto i magistrati che, se non hanno potuto incarcerarlo, hanno accertato e argomentato, per lui e per tutti noi, la verità. I limiti della giurisdizione la rendono imperfetta: ma è la sola compatibile con la democrazia. Non è retorica se affermo con tutta la forza della mia voce che quegli anni terribili hanno alla fine dimostrato “la forza della repubblica”.

casalegno.salvatorelli@gmail.com

A. Casalegno è giornalista e traduttore