Cento anni di Rodari: ma quanto Rodari c’è oggi nella scuola? | Il Mignolo

Osservatorio scuola

Beniamino Sidoti dialoga con Pino Boero

Nel 2020 ricorre il centenario dalla nascita di Gianni Rodari: e “Gianni Rodari” è tra i nomi delle scuole italiane uno dei più ricorrenti, se non il più diffuso in assoluto. Eppure, la scuola italiana oggi non sembra così rodariana. Quanto Rodari c’è secondo te nella nostra scuola?

Ti rispondo provocatoriamente con una domanda: quanti fra gli insegnanti di oggi hanno letto Grammatica della fantasia? Certo, non esistono statistiche sull’argomento ma  (per quanto mi è capitato di osservare negli anni) il libro, fondamentale per conoscere da vicino la cultura e la poetica rodariane, è noto più per “sentito dire” che per conoscenza diretta né mi risulta che faccia parte del bagaglio formativo delle studentesse e degli studenti che frequentano nelle Università i corsi di Scienze della Formazione Primaria. Ho l’impressione, cioè, che il sottotitolo voluto da Rodari, Introduzione all’arte di inventare storie, sia stato preso alla lettera e abbia trasformato il testo, che nella sua parte conclusiva contiene una bibliografia di oltre quaranta titoli di filosofia, linguistica, letteratura, pedagogia, psicologia, in pretesto per produrre casualmente giochi di parole, effimere invenzioni, svaghi momentanei. E con la sua produzione letteraria non trovo molte differenze: Rodari è memoria di testi antologizzati, è garanzia di “modernità” (è morto da quarant’anni…) nella scelta del libro di testo, sono brandelli di versi o prose messi in rete…

Come spesso capita in Italia e non solo, la diffusione del suo nome è tanto un omaggio quanto un tradimento… Come se Rodari fosse entrato nella scuola “perché facile”, come se fosse un autore di buoni sentimenti.

Vado controcorrente e affermo che Rodari è un autore “difficile” nel senso che la sua esperienza è quella di un intellettuale che vive in pieno le contraddizioni e le speranze, la realtà e l’utopia del nostro Novecento. La sua scommessa pedagogica, che si muove fra la critica alla “scuoletta” tradizionale e l’idea di una scuola “grande come il mondo”, non costituisce solo un invito ai bambini ad “aprire gli occhi” per essere promossi, ma evidenzia la convinzione politica e civile che “pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà” (Gramsci) erano due poli che si attraevano; è la stessa pazienza “non passiva” di Gramsci che porta Rodari a ribadire che se un pianeta utopico (quello degli “alberi di Natale”) non esiste non bisogna scoraggiarsi perché “esisterà”. Non credo che questo sia noto agli operatori delle nostre scuole che fanno studiare ai bambini una poesia di Rodari o fanno leggere una “favola al telefono”.

E dall’alto?

Non va meglio: la rodariana “scuola grande come il mondo” non ha cittadinanza in una scuola burocratizzata, ipervalutativa, affidata fideisticamente al potere salvifico dell’innovazione tecnologica. Fra il Rodari “reale” dei testi visti nella loro organicità e quello “percepito” nel brano singolo c’è un abisso scavato dalla scarsa lettura, dall’occasionalità, dal pressapochismo.   

In effetti pare che nella scuola Rodari, come tanti altri, non arrivi quasi mai attraverso una lettura integrale di un’opera o delle sue opere, ma piuttosto tramite i brani antologizzati: e così diventa funzionale ai buoni sentimenti di cui da sempre si nutre ogni istituzione per l’infanzia. Eppure Rodari era uomo di parte, pronto a schierarsi.

L’equivoco “buonista” nasce da lontano, dagli anni sessanta che decretano il successo di Rodari come autore per l’infanzia; la sua concessione a una minor carica di polemica politica all’interno delle filastrocche (si evince da Gli odori dei mestieri dove “i ricchi (che) non sanno di niente, però / puzzano un po’” diventano in nuova edizione i “fannulloni, strano, però, / non sanno di nulla e puzzano un po’”) diventa automaticamente “bontà”, interclassismo, generico pietismo. La realtà dei testi di Rodari dice qualcosa di diverso: prendiamo come esempio la risoluta durezza delle conclusioni di alcune Favole al telefono come quella di Il re che doveva morire e che pur di non ammettere di somigliare al mendicante preferisce morire “con la corona in testa e lo scettro in pugno”. Voglio dire che Rodari non concede mai spazi alla presunzione, alla colpevole ignoranza, al pregiudizio e, al momento opportuno, sa essere anche duro nei giudizi come si evince dagli articoli “pedagogici” e di commento all’attualità pubblicati su quotidiani e riviste. Insomma uno scrittore ben lontano da quella “vulgata” che fa comodo alla pigrizia di molti.

Rodari infatti lo ricordiamo spesso come maestro e meno come giornalista, ma è più vero il contrario: cioè che Rodari è stato anzitutto giornalista, per professione e per metodo; curioso del presente e del mondo, pronto a incontrare le persone e a dare spazio al pensiero e alle parole di altri, ha mantenuto un dialogo costante con adulti e bambini, in un mondo in cui, anche grazie anche a lui, l’attenzione all’infanzia riguardava anche i quotidiani nazionali e i partiti.

Quando parlavo di Rodari intellettuale intendevo proprio ribadire che per lui l’attività giornalistica per adulti e la scrittura per l’infanzia appartenevano allo stesso universo comunicativo e pedagogico; non è un caso che negli interventi autobiografici che ci ha lasciato parli della sua attività di maestro, precoce utilizzatore di “giochi di fantasia” (“raccontavo ai bambini un po’ per simpatia un po’ per la voglia di giocare, storie senza il minimo riferimento alla realtà né al buonsenso, che inventavo servendomi delle tecniche promosse e insieme deprecate da Breton”), della sua attività di cronista (“ogni mattino facevo il giro dei mercati, guardavo i prezzi, parlavo con commercianti e massaie, scoprivo tanti problemi nella borsa della spesa della gente”) e dell’inizio quasi obbligato della sua attività di scrittore (a “l’Un-ità” “chiesero a me di fare un angolo per i bambini. Ero il solo ad aver fatto, anni addietro, il maestro di scuola e questo era l’unico titolo che suggeriva quella scelta”) legando tutto nel nome della dimensione formativa della lettura e dei libri.

Rodari è stato anche un uomo attento al presente, molto aggiornato: aggiornato sugli studiosi e sugli strumenti a lui contemporanei, sui temi e sugli equivoci, pronto al dialogo anche su un quotidiano o in radio. Oggi rischiamo di vederlo come “vecchio” perché non lo affrontiamo nel suo contesto, o perché estrapoliamo certe sue affermazioni come aforismi o frasi a sé stanti.

Nei primi anni cinquanta Rodari difende la specificità del fumetto come forma di comunicazione, nella seconda metà degli anni settanta sta “dalla parte di Goldrake”; nel corso della sua vita professionale partecipa poi a trasmissioni radiofoniche e televisive insieme ai bambini e non rifiuta neppure di scrivere per la pubblicità (simpatici testi per la British Petroleum)… Insomma Rodari era “giovanissimo” rispetto alle nuove forme di comunicazione di allora, lo sarà oggi se riusciremo a non essere “apocalittici” rispetto alla modernità.

Torniamo alla scuola: Rodari dialogava con la scuola ma non si prestava all’insegnamento pedante delle singole materie… eppure oggi certe sue opere sembrano “fatte” per insegnamenti curricolari. Invece si è persa, forse, una critica precisa a una scuola fatta per curricoli.

Rodari, scherzando, diceva di rabbrividire all’idea di una possibile “versione in prosa” delle sue filastrocche e dell’analisi grammaticale delle sue favole; in realtà, anche se non siamo nel pieno paradosso rodariano, non dimentico che certi suoi testi diventano pretesto per altro, fanno da volano a qualche pezzo di insegnamento curricolare. Un esempio fra tutti: la poesia Stella senza nome:I nomi delle stelle sono belli / Sirio, Andromeda, l’Orsa, i due Gemelli. / Chi mai potrebbe dirli tutti in fila? / Son più di cento volte centomila. / E in fondo al cielo non so dove e come / c’è un milione di stelle senza nome: / stelle comuni, nessun le cura / ma per loro la notte è meno scura”. I versi rientrano a pieno diritto in quei testi rodariani che vedono protagonisti gli umili, i diversi, le cose apparentemente meno significative, ecco invece come è stata trattata in un libro di lettura per la scuola primaria: “Qual è l’idea che l’autore esprime nei versi della poesia? Segna con una croce la frase giusta:

Nel cielo ci sono stelle famose e stelle comuni:

1. Tutte illuminano la notte;

2. Bisogna dare un nome alle stelle che ancora non l’hanno”.

Ogni ulteriore commento è superfluo…

Molte foto di Rodari lo ritraggono mentre fa una cosa oggi inconsueta: ascolta. Nella sua pratica con i ragazzi ne traiamo un ritratto di persona, di adulto, che ascolta e rilancia, che dialoga. Che ha un’idea di bambino come persona in crescita.

Rodari era uomo di ascolto e di dialogo; era convinto che la violenza non fosse solo nelle cose ma anche nelle parole, in quelle frasi, cioè, dette in fretta, magari rispondendo distrattamente alle domande di un bambino. Non violenza voleva dire per lui guardare gli altri (e nello specifico i bambini) con attenzione e rispetto.

Torniamo al primo nodo, quello dell’uso frammentario dell’opera rodariana, attraverso scelte d’occasione o funzionali ad altro: ho l’impressione che, nella pratica quotidiana, questo possa restituire un’idea provinciale o superata del suo lavoro letterario. Mentre mi pare che il suo respiro parta sì dal piccolo, dal toponimo minimo, dal mondo vicino, ma che aspiri sempre ad andare lontano, proponendo una strada, un percorso e un divenire.

Ritengo che, anche senza citare una sua antica poesia dedicata al tricolore, Rodari sia stato un intellettuale capace di partire anche dai paesi più piccoli per condurci in giro per il mondo: ovviamente le sue “scoperte” non sono turistiche ma ci illustrano i tratti comuni dell’umanità, ci fanno vedere che ciò che ci unisce è più di ciò che può dividerci e che il sogno di tutti dovrebbe essere quello di vedere “i bambini di tutto il mondo / che fanno un grande girotondo / con le mani nelle mani / sui paralleli e sui meridiani”…

Pino Boero è tra i nostri massimi esperti di Letteratura per ragazzi, che ha insegnato a lungo all’Università di Genova.