Cristina Cattaneo – Naufraghi senza volto | Libro del mese

La potenza evocatrice degli oggetti

di Franca Cavagnoli

Cristina Cattaneo
NAUFRAGHI SENZA VOLTO
Dare un nome alle vittime del Mediterraneo
pp. 200, € 14,
Cortina, Milano, 2018

Nel 2013, mentre lavoravo a Luminusa (Frassinelli 2015), sono stata a Lampedusa. Tra i vari incontri con gli abitanti dell’isola, in quelle giornate fredde e ventose, le conversazioni con l’artista e cantautore Giacomo Sferlazzo del collettivo Askavusa sono state illuminanti. Un pomeriggio Giacomo mi invitò a casa sua per mostrarmi un capanno in cui aveva riunito gli scatoloni con gli oggetti dei migranti rinvenuti in giro per l’isola e che per qualche tempo erano stati esposti. In seguito gli oggetti hanno trovato nuova accoglienza in un luogo simile a una grotta, Spazio M, sopra il porto vecchio. Tra gli oggetti che girai e rigirai tra le dita quel pomeriggio c’erano alcune fotografie. In una la sposa ha la pelle nerissima. Indossa un abito bianco lungo di pizzo senza strascico. Tra le mani stringe un bouquet di rose di pizzo bianco, celeste e rosa. Non sorride, e ha una ruga profonda tra le sopracciglia. In un’altra foto una bambina di una decina d’anni indossa un vestito lungo beige: sulla tasca c’è una scritta in stampatello a piccoli punti rossi: butterfly. E ricamata sopra una farfalla, pure rossa a pois neri. Accenna un sorriso timido, compunta, le braccia lungo i fianchi. Porta un paio di calzettoni verdi e di sandali simili ai Birkenstock. Dietro di lei una grande acacia e nemmeno un filo d’erba. In un’altra ancora una ragazza guarda dritto nell’obiettivo senza un sorriso. Porta una gonna chiara, vaporosa, forse di tulle. I piedi scalzi sono impolverati di terra rossa. Queste fotografie sono finite in Luminusa, e Mario, il protagonista del romanzo, ha aggiunto le sue didascalie in versi prima di esporle nel piccolo luogo della memoria in cui lavora. Le scrive in versi perché così, pensa, la gente porterà via con sé qualcosa di più di quel che rimane dopo aver letto un articolo di cronaca. Più che le fotografie integre, giunte a Lampedusa dopo aver attraversato il deserto e il mare, a restare davvero impresse nella mente sono state le fotografie dilavate dalla salsedine. Qualche tempo prima mi si era allagata la cantina e un pacco di foto fatte durante i miei viaggi in Sudafrica al tempo in cui traducevo Nadine Gordimer era rimasto danneggiato. Una foto immersa a lungo nell’acqua perde consistenza: la testura si altera, i colori si sfaldano, i volti perdono i lineamenti, le costruzioni si confondono con la terra. Rimangono piccoli quadri astratti al posto della concretezza di un naso, una bocca, una casa, un orto. Trovai singolare che a restare danneggiate, in cantina, fossero proprio le foto dell’Africa. Poi, mentre lavoravo al romanzo, le fotografie di Lampedusa e quelle del Sudafrica si sono sovrapposte, mescolate, una sorte toccata pure ai miei ricordi personali e a quelli immaginati, i ricordi dei miei personaggi. Alla base del rapporto che ognuno di noi ha con la memoria c’è la volontà di ricordare ciò che accade, a noi e intorno a noi. Si può anche scegliere di accantonare un ricordo doloroso per andare a cercarlo in seguito. Ma se ci si abitua a chiudere gli occhi davanti alla realtà, si mette in atto un fenomeno di rimozione dal quale non c’è ritorno. La conservazione collettiva della memoria dovrebbe essere un dovere delle istituzioni. Non mi riferisco solo alla questione dei migranti: basta fare un passo indietro e ripensare alla nostra esperienza coloniale – strettamente legata all’arrivo di migranti dal Corno d’Africa –, che gli italiani tendono a rimuovere al punto che le giovani generazioni ne sanno poco, a volte nulla. Le istituzioni hanno un preciso dovere morale, storico e politico non solo di istituire giornate della memoria, ma anche luoghi della memoria. Il minimo che si possa fare, accanto a identificare le vittime dei naufragi, dare loro un nome – sempre più possibile grazie al lavoro pionieristico fatto dall’équipe guidata da Cristina Cattaneo della Statale di Milano –, è ricordarli grazie a ciò che è stato rinvenuto nelle tasche, in una borsa o sugli indumenti. Come il sacchetto di terra annodato all’interno della maglietta di un giovane eritreo ritrovato nel piccolo scafo del barcone naufragato il 18 aprile 2015, il sacchetto la cui fotografia è conservata nel libro di Cristina Cattaneo e che ha la stessa potenza evocatrice del cappottino rosa sul carro in bianco e nero del campo di concentramento in Schindler’s List.

Non parlo necessariamente di musei, perché il rischio di speculare sulla memoria è grande. Sono convinta che la dimensione trovata a Lampedusa – conservare tracce di vita quotidiana – con il progetto Porto M sia quella giusta. Gli oggetti non sono esposti in teche perché non devono essere solo visti: sono uno accanto all’altro, a volte affastellati. Questo obbliga il visitatore a soffermarsi, a compiere uno sforzo per distinguerli uno dall’altro. Il tempo che si è disposti a investire per osservare gli oggetti è ciò che fa la differenza. È il tempo che si è disposti a investire per identificare dentro di sé i morti, uno per uno, per immaginarne il nome se non lo si conosce, per sentirli essere umano accanto a essere umano e riconoscere in loro la nostra comune condizione di migranti.

franca.cavagnoli1@tin.it

F. Cavagnoli è scrittrice e traduttrice