Elena Ferrante – La vita bugiarda degli adulti

L’andirivieni di un braccialetto

di Elisa Gambaro

Elena Ferrante
LA VITA BUGIARDA DEGLI ADULTI
pp. 336, € 19,
e/o, Roma 2019

Dall’apparizione dell’Amica geniale, il primo volume della quadrilogia destinata a proiettare il nome di Elena Ferrante e le sue storie su una dimensione globale, molta acqua è passata sotto i ponti. Nove anni fa, in Italia quei ponti non si dimostrarono troppo ben presidiati: il clamoroso successo della saga, tra i pochi prodotti autoctoni in grado di portare benefica e non gratuita attenzione sull’offerta narrativa nazionale –  incluse le sue espressioni più colte – trovò del tutto impreparati gli addetti alle patrie lettere. Che prima se ne scandalizzarono, poi se ne lamentarono, infine dovettero a malincuore prendere atto del fenomeno. Uscito a novembre scorso, preceduto da anticipazioni e discreto battage, La vita bugiarda degli adulti ha trovato, invece, (e come stupirsene?) una disposizione critica senz’altro più ricettiva, anche se nel complesso non esattamente benevola. Da una parte a ragione, perché il libro non sembra all’altezza della precedente produzione d’autrice; ma dall’altra a torto, se doverosamente paragoniamo il romanzo ad altri italiani dell’annata, spesso lodati senza riserve. In quest’ultima prova, Ferrante ritorna ancora una volta sui temi a lei più cari, ormai cifra subito riconoscibile del suo universo narrativo. Vi è anzitutto Napoli come sfondo ambientale ed eterna metafora, dove le differenze e le promiscuità di ceto tanto più plasticamente rilucono quanto meno appaiono permeabili alle spinte e controspinte del movimento storico. L’azione questa volta si svolge negli anni novanta, ma nessun cenno viene fatto agli eventi pubblici del decennio.

A dimostrazione di quanto l’ambizione all’affresco storico ad ampie campate fosse sì l’ingrediente spettacolare, ma infine anche quello più caduco della quadrilogia, in La vita bugiarda degli adulti i personaggi si muovono entro una rete relazionale angusta, circoscritta quasi solo alla dimensione familiare e modellata su schematismi vistosi. La protagonista Giovanna, di cui ci vengono narrati gli anni dell’adolescenza, è figlia di due insegnanti convenzionalmente progressisti: mentre la mamma rimpingua il bilancio domestico sgobbando sulla redazione di romanzi rosa, è soprattutto il padre, presentato come intellettuale impegnato, a fare della pratica culturale strumento e stigma di distinzione sociale. Svolto al maschile e a una generazione di distanza, il tema “eroico” dell’ascesa di classe attraverso l’istruzione, già sottilmente incrinato nella quadrilogia, mostra qui un rovescio impietoso: la vita degli adulti, scoprirà Giovanna, non è soltanto bugiarda, ma soprattutto meschina e ben poco esemplare.

Attorno al terzetto protagonista si muove un’altra famiglia, posizionata un po’ più in alto sulla scala del prestigio e del denaro: un docente universitario sbrigativamente turpe, una figlia di papà altrettanto stereotipata. Il poco originale canovaccio prevede la separazione dei genitori di Giovanna e lo scambio delle due coppie. A muovere l’intreccio è però un elemento estraneo al milieu della piccola e media borghesia intellettuale partenopea: fin dalla prima pagina, a scombinare scenari e aprire crepe interviene la sorella di papà, ovvero la tremenda zia Vittoria. Rimasta nei mitologici paraggi della Napoli plebea, a questa donna rude e schietta, che vive nel ricordo di un amore perduto, spetterà accompagnare, riecheggiare e confondere la trama di ogni romanzo di formazione che si rispetti: il disvelamento adolescenziale delle figure parentali. Sino a un certo punto del libro, il controcanto è efficace: una delle indiscusse doti dell’autrice, il vero movente della non comune capacità di raccontare e di avvincere chi legge, continua a essere la tessitura polifonica e confortevolmente ipnotica della pagina, dove una seconda voce discorde tende a sovrapporsi a quella di chi conduce il discorso. Alla lettrice di Ferrante l’intransigente furore e la passionalità irragionevole di zia Vittoria richiamano subito in mente alcuni tratti della silhouette di Lila. Senonché, della memorabile coprotagonista dell’Amica geniale questa zia scombinata non possiede il nerbo inventivo né il conseguente carisma: già prima della metà del romanzo, Vittoria ci appare una donnetta patetica e insopportabile. A non funzionare appieno è certo il dosaggio delle voci e dei punti di vista, ma all’esito nel complesso deludente del romanzo contribuisce anzitutto, mi pare, un’opzione preliminare: postura e prospettiva che inscenano e danno voce all’io narrante appaiono generazionalmente arretrate.

Dopo il fisiologico allontanamento dai genitori, la formazione di Giovanna si gioca solo ed esclusivamente nei rapporti con l’altro sesso. Da qui si avvia la porzione più debole dell’intreccio, non a caso scandito dall’andirivieni pletorico e posticcio di un braccialetto di famiglia. Pur spavalda e spregiudicata con i ragazzi che frequenta, la protagonista è gravata dall’ombra vedovile della zia, dal fallimento matrimoniale della madre, dall’ansia di abbandono di un’amica/rivale in amore: il desiderio per il maschio prescelto, un noioso accademico in erba che predica la necessità religiosa della compunzione, tende suo malgrado a replicare quei modelli di subordinazione. È vero che alla fine Giovanna deciderà di partire assieme alla più intelligente delle sue coetanee, ma il libro si chiude su una scena precedente, la descrizione minuta di uno squallido primo rapporto sessuale. Ci sarà qualcos’altro, oltre all’orizzonte del maschile come inganno e inesausta tensione? Il finale aperto lo lascia intendere, e lo speriamo. Per ora, dall’autrice dell’Amica geniale noi nate negli anni settanta ci aspettavamo, forse a torto, un po’ di più.

elisa.gambaro@unirmi.it

E. Gambaro insegna letteratura italiana contemporanea all’Università di Milano